Storia

Michele Amatore, il capitano moro

Mi sono occupato già in precedenza di personaggi curiosi di fine ‘800 e primo ‘900: l’eroico scavezzacollo Warneford che abbatte un dirigibile tedesco, l’intrepida MacGyver ottocentesca Bertha Benz che sfreccia in automobile o l’ufficiale tedesco negro Gustav Sabac el Cher che fu direttore della banda del Primo Reggimento Granatieri a Königsberg.
In questo articolo continuerò a parlare di negri perfettamente integrati in nazioni bianche durante il Lungo XIX Secolo, presentando il caso di Michele Amatore: uno schiavo di origini sudanesi che combatté per l’espansione del Piemonte l’Unità d’Italia, scalando i ranghi da soldato semplice analfabeta fino a divenire capitano nei bersaglieri.

La fonte principale per questo articolo è stato il saggio Il capitano moro di Roberto Alciati, edizione di modesta tiratura voluta dal Comune di Quattordio, in Piemonte, e dell’Associazione Nazionale Bersaglieri per i 150 anni dell’Unità d’Italia. È un libricino di circa cento pagine, per metà su Amatore e per metà sul contesto storico in cui si inserisce la sua vicenda. Non si trova in commercio, ma l’autore ha avuto la gentilezza di renderlo disponibile per la lettura (anteprima completa, non manca niente) su Google Books. Le foto di Amatore che ho inserito nell’articolo sono tratte da lì.

Confido che un argomento così interessante e così d’attualità (integrazione attiva per merito, volontà ed eroismo, non cittadinanza passiva per sangue o per suolo) sarà in grado di attirare qualche editore più lungimirante degli altri, capace di convincere Roberto Alciati a farne una nuova edizione ampliata da distribuire in tutta Italia per dare ancora più notorietà a questo eroe del Risorgimento. Ci sarà certamente molto materiale da aggiungere che non ha potuto utilizzare nella prima edizione.

Michele Amatore con uniforme da capitano (1866-1869 circa)

Michele Amatore nacque, a quanto ricostruito da lui stesso, nel 1826. Era un Nuba dei Monti Nuba e Roberto Alciati ne Il capitano moro stima la posizione del suo villaggio un po’ a occidente di En-Nahud, nel Cordofan.

Le vicende della cattura di Amatore e la vendita come schiavo sono state raccontate da Michele Amatore a Michele Lessona e riportate nel libro Volere è potere del 1869. Riporto il brano esatto prima di integrarlo con dei commenti.

Il villaggio in cui io sono nato si chiama Commi.
Verso la metà del mese di settembre dell’anno 1832 il mio villaggio fu aggredito dalla truppa regolare del vicerè d’Egitto. I soldati egiziani circondarono il villaggio all’alba in numero di circa 6000, e incominciarono un vivissimo fuoco.
Gli abitanti balzarono fuori spaventati; ma subito tutti quelli che erano atti a combattere si raccolsero, e con frecce e con stili (chè non avevano altre armi) incominciarono la difesa. Era la difesa delia moglie, dei figli, degli averi, di tutto, e fu disperata. Ma combattevano forse un migliaio d’ uomini male armati e peggio ammaestrati, ed era troppo disuguale la lotta: quei valorosi non poterono fare altro che vendere cara la loro vita.
Sulle salme dei morti guerrieri i soldati egiziani entrarono nel villaggio, e fu una vera carneficina: uccisero i vecchi, e non lasciarono che un mucchio di rovine.

I superstiti, donne e fanciulli la più gran parte, furono legati e tenuti sotto custodia fino al giorno seguente. Mio padre, capo della tribù, perduta ogni speranza di vivere e di salvare la sua famiglia, piuttostochè cader schiavo di quella gente avida di sangue e di saccheggio, preferì gittarsi disperatamente nella mischia, e valorosamente morì trafitto dalle palle del cruento nemico.

Però prima di morire raccomandò ad un nero, che adempì all’incarico, di dirmi di tenere a mente (e non si cancellerà in me la sua parola se non che coll’estinguersi della mia vita) che io era il suo primogenito, e che m’ incombeva l’obbligo di ricordarmi della gente cui io apparteneva, e che un giorno liberato dalla schiavitù non dimenticassi di ritornare nei nostri possedimenti, e dare nuova vita al nome della perduta famiglia.
La tribù portava il nome dei paese in cui risiedeva il capo, e quel paese si chiamava Commi, come ho detto sopra.
Mio padre si chiamava Bolingia, mia madre Siliando, il mio nome era Quetto, un mio fratello minore si chiamava Sarin: di due più piccole sorelline non ricordo i nomi.

Calcolando dal tempo che abbiamo impiegato a percorrere la strada dal mio perduto villaggio a Kartum, penso che la distanza sia di novanta o cento miglia. Sebbene in quei giorni di sventura io non avessi più di sei o sette anni, pur troppo mi ricordo dei mali trattamenti che ci hanno fatto soffrire i soldati egiziani nel doloroso tragitto. II bastone di quella gente esecrata non risparmiava nessuno: tutti, grandi e piccoli, erano barbaramente percossi; e quelli che pel patimento e lo scarso cibo perdevano le forze, spietatamente venivano uccisi.

Il cibo era un po’ di pane ed acqua, e questa sovente ci mancava, per cui strada facendo buon numero di schiavi perirono e furono lasciati insepolti. Mia madre aveva una bambina lattante: inariditosele il seno, l’innocente creatura dopo pochi giorni moriva; mia madre prese a scavare colle mani la terra per farle una sepoltura, e quegli scellerati la percossero ferocemente: i morti non dovevano essere sepolti. Insomma, la marcia dal mio villaggio a Kartum non poteva presentare spettacolo più straziante. In quella marcia le privazioni, i mali trattamenti, le soverchie fatiche fecero morir tanta gente, che io calcolo a 600 o 700 quei morti, un terzo circa dei partiti.

Impiegammo circa dieci giorni da Commi a Kartum; qui fummo divisi in tre scompartimenti. In quella spartizione mi divisero dalla madre e dai fratelli, ultimo mio conforto sulla terra, e così il mio fratello minore e la sorellina furono divisi dalla madre, per modo che nessuno più della mia famiglia potè conoscere la sorto dei congiunti; e nulla io ne seppi più mai, malgrado le incessanti ricerche fatte.
Di leggieri ciascuno si persuaderà che anche ai popoli digiuni d’ogni principio di civiltà non è sconosciuto l’amore pei genitori: onde lascio giudicare qual terribile momento fu quello per la madre e per noi fratelli: per non abbandonarci, la madre ci strinse tenacissimamente al seno, ma con forza brutale ci separarono.

Qui devo attestare che i miei nuovi padroni, i giallab, furono ben più umani dei soldati egiziani: essi almeno ci permettevano qualche ristoro alle fatiche del viaggio, ci soccorrevano, non ci privavano mai dei necessario cibo, non adoperavano mai mezzi brutali.
Sì, devo ai giallab gratitudine, sebbene il traffico che essi fanno, sia non solo disprezzabile, ma detestato dall’umana natura.

Qualche informazione per inquadrate l’operazione militare che coinvolse il villaggio di Quetto. L’Egitto di Mehmet Alì aveva iniziato l’annessione del Sudan a partire dal 1820 e dal 1839 anche il meridione era in mani egiziane. Quando Quetto venne catturato, nel 1836, Khartum era egiziana da anni e possiamo immaginare che essendo ancora nel pieno periodo di annessione del Sudan, fosse anche zeppa di soldati egiziani.

Le ricchezze del Sudan erano due: oro e schiavi. Mehmet Alì vide da subito l’enorme ricchezza in schiavi del paese, probabilmente uno dei motivi della sua invasione. I reggimenti egiziani, armati con fucili moderni (a pietra focaia e anima liscia, all’epoca), assediavano i villaggi più numerosi, uccidevano i maschi che si ribellavano, uccidevano gli anziani e portavano via donne e bambini. I soldati egiziani erano addestrati come soldati moderni fin dal 1827, grazie al consulente militare di Mehmet Alì, il colonnello francese Sève, veterano di Trafalgar e di Waterloo.
Mehmet Alì nel 1823 lo scrisse in una lettera al genero, l’intendente alla finanze Mohammed Khusraw:

Voi sapete che lo scopo di tutti i nostri sforzi e di tutte queste spese è quello di procurare negri. Dovete impegnarvi a fondo nel soddisfare i nostro desideri su questo capitale problema.

Buffo che quando non li vuoi te ne arrivano a navi cariche dall’Africa, al punto che ti domandi se la zingariera appena installata alla finestra sarà adatta anche per fermare questi, e quando invece li vorresti fanno i ritrosi, come belle fanciulle, e li devi andare a stanare a casa loro a fucilate!

Essendo il numero dei negri del Sudan così grande da poter essere considerato infinito, i soldati egiziani non si facevano problemi a lasciarne morire una buona parte nelle marcia fino a Khartum, pur di fare in fretta e non sprecare soldi per nutrirli.

Romolo Gessi, militare e geografo italiano, nel libro pubblicato postumo nel 1891 Sette anni nel Sudan egiziano spiega il bisogno di schiavi dei soldati egiziani: i soldati egiziani non ricevevano mai soldi come paga, solo merci tra cui bestiame e schiavi razziati (un terzo del totale). L’interesse del soldato egiziano è che la spartizione del bottino alla fine sia buona, ma allo stesso tempo, dovendo badare a proprie spese agli schiavi, li nutre il meno possibile. Se tutti sono tenuti a collaborare e poi si spartisce in parti uguali comunque, nessuno è invogliato a investire più del minimo necessario (tanto comunque per 2/3 il bottino finisce in tasca al governatore).

Giunti a Khartum gli schiavi venivano classificati dal governatore, per stimarne il valore, e iniziava la vendita ai giallab (o djallab o, italianizzati, gelabba) che li portavano al Cairo. Secondo Lessona il viaggio fino al Cairo, in gran parte a piedi, era così duro che due terzi degli schiavi moriva nonostante, come sottolinea Amatore, i giallab facessero il possibile per confortare la loro mercanzia e farla sopravvivere. O forse, più probabilmente, non sempre i mercanti di schiavi erano gentili come quelli che conobbe Amatore? Due terzi delle perdite sono parecchie però va anche detto che il viaggio era di ben 2000 chilometri, pari a 50 giorni di cammino secondo Balboni che cita i tempi di percorrenza dei corrieri appiedati delle poste egiziane (20 km al giorno o poco più era anche il ritmo delle fanterie del periodo napoleonico, a quanto dice Clausewitz nel Della Guerra).

Il villaggio di Michele Amatore si trovava non troppo distante da En-Nahud.

Interessante è la motivazione con cui i neri venivano catturati.

Mehmet Alì, che ci teneva a far bella figura con le nazioni bianche d’Europa, più che coi Turchi, si sentì in grande imbarazzo quando gli europei iniziarono a contestare le razzie per prendere gli schiavi. Ecco che ordinò ai suoi governatori di non farlo più: solo i prigionieri di guerra potevano essere venduti come schiavi. I giornalisti francesi, dice Lessona, ebbero la bella idea di ingigantire la notizia facendo credere in Europa che la schiavitù fosse stata del tutto abolita. In realtà da allora, come da direttive, prima di partire per catturare gli schiavi in un dato villaggio il governatore della regione affermava che il tal posto aveva tramato contro la nazione o l’aveva offesa in qualche modo, dichiarava guerra ufficialmente e catturava la popolazione per rimborsare le spese di guerra.
Non prede di razzie, ma prigionieri di conflitti legalmente ineccepibili. Casualmente, fa notare Lessona, ci si ricordava di tali sgarri solo quando arrivava il momento di inviare soldi dalla provincia all’erario egiziano. La tratta degli schiavi era ancora attiva nel 1873, quando ne scrive il vescovo missionario Daniele Comboni (fondatore dei Figli del Sacro Cuore di Gesù), e non era ancora terminata negli anni ’50 del Novecento.

Gli schiavi erano presenti in abbondanza sia nelle case dei musulmani che in quelle dei cristiani copti, visto che la Bibbia non vieta la schiavitù (anzi, la incoraggia, si veda l’episodio di Noé ubriaco e del figlio Cam che lo scopre) e il loro numero era un indicatore di ricchezza, come lo era quello dei domestici stipendiati nelle case europee. Ogni settimana al Cairo aveva luogo un mercato speciale dedicato agli schiavi, l’okelle.
Possibile che il commercio degli schiavi, così remunerativo, fosse in mano solo agli egiziani? Suona strano che gli europei, sempre capaci di infilarsi in ogni commercio remunerativo, si fossero lasciati sfuggire l’occasione! E infatti Balboni nel primo volume de Gl’Italiani nella civiltà egiziana del secolo XIX riporta questa citazione tratta dal libro di tale Santoni:

È doloroso, scrive il P. Carcerieri della M. Africana, il dire che fra coloro che meritano il nome di mercanti di carne umana, vi furono eziandio alcuni Europei. Sotto le appellazioni di Latif, di Mansur, di Soliman, di Ibrahim ecc., si celavano dei Francesi, degli Italiani, del Tedeschi e persino degli Inglesi che si erano costituiti capi principali del commercio dei neri. I loro nomi sono noti in Egitto ed in Sudan, ed io potrei rivelarli quasi tutti se la loro infamia non ricadesse sulle famiglie superstiti di cui furono il disonore. Sotto la salvaguardia della bandiera nazionale e taluno anche sotto l’usbergo del Consolato, ammassarono delle ricchezze tradendo il sangue innocente di tanti figli della povera Nigrizia

Ringrazio Dago, l’ascaro pugliese, per l’immagine.

Al Cairo Quetto fu comprato da Luigi Castagnone, un medico italiano in esilio.

Castagnone nacque a Casale Monferrato, si laureerò in medicina nel 1813, sviluppò simpatie carbonare, entrò nel Federati italiani e partecipò ai moti del 1821, quelli per ottenere nel Regno di Sardegna la costituzione spagnola. Mentre ad Alessandria il massone Urbano Rattazzi guidava la rivolta e faceva issare il tricolore, i Federati di Casale Monferrato ottenere il compito di fare lo stesso presso il loro castello. Castagnone armato di sciabola, coi suoi colleghi federati, avanzava di paese in paese, disarmava i carabinieri e proclamava la Costituzione. Il Re non gradì, fece condannare a morte Rattazzi (che intanto era fuggito in Spagna) e condannò Castagnone alla galera perpetua (6 settembre 1822, sentenza del Senato del Piemonte) e alla confisca dei beni.
Castagnone nel frattempo era fuggito in Svizzera e da lì scappò in Egitto nel 1830, forse attirato dalla nutrita comunità italiana e dall’ospedale del Cairo fondato dall’italiano Colucci. In poco tempo Castagnone, forse grazie agli agganci politici con gli esuli Federati, divenne protomedico (medico di corte?) di Mehmet Alì. Non si sa nulla di più preciso sugli anni egiziani di Castagnone.

Una curiosità sui Federati italiani

Erano un’associazione con una struttura rigidissima, militare, con parole d’ordine, giuramenti e in cui i diversi gruppi per motivi di segretezza avevano pochissimi contatti gli uni con gli altri. Gli intenti rivoluzionari dell’associazione erano però altrettanto segreti visto che i veri piani venivano svelati solo salendo di rango. Quando si era Federati si pensava di star lottando per una monarchia costituzionale e liberale, ma se si saliva al rango superiore degli Adelfi si scopriva che il vero intento dell’associazione era conseguire una repubblica vagamente socialista. E non è finita qui: in realtà in cima a tutti, i veri “capi” che conoscevano il progetto dell’associazione, vi erano i Sublimi Maestri Perfetti, una loggia della (diremmo oggi) massoneria deviata fondata dal Buonarroti nel 1818 il cui fine ultimo era la società egualitaria comunista.

Si strappino i confini delle proprietà, si riconducano tutti i beni in un unico patrimonio comune, e la patria – unica signora, madre dolcissima per tutti – somministri in misura eguale ai diletti e liberi suoi figli il vitto, l’educazione e il lavoro.

(Filippo Buonarroti, Cospirazione per l’uguaglianza, 1828)

“Uniti faremo la rivoluzione” – “Sì, ma quale?”
Uno magari entrava nei Federati perché convinto dalla maggiore realizzabilità della monarchia costituzionale rispetto alle utopie comuniste e a sorpresa si trovava a combattere per i comunisti. Sarebbe come entrare nelle Brigate Rosse e scoprire di essere manovrati da Andreotti (citando Angra).

Si può sorridere per la chiarezza del programma politico dell’associazione, pensando all’uguale chiarezza di intenti dei partiti italiani moderni in cui a parole si sostiene una cosa e poi le correnti interne sostengono tutt’altro. Da oltre un secolo e mezzo l’Italia è imprigionata in un eterno presente, motivo di satira per lo Steampunk, in cui cambiano i costumi dei personaggi e i loro nomi, ma non i temi ricorrenti e le lamentele. Ci tornerò in futuro con un racconto di Matilde Serao che pare parlare del precariato di questi anni.

Entra nei Federati, la nostra causa è giusta!
E un giorno forse saprai anche qual è.

Il 22 ottobre 1836 Re Carlo Alberto firmò la grazia commutando la pena da ergastolo a esilio. Il dicembre di quell’anno Castagnone era già a Firenze, secondo le autorità che lo tenevano sott’occhio, e nel 1837 (o forse già nel dicembre 1836) tornò a Casale Monferrato sfruttando un permesso di rientro per motivi di salute (aveva una malattia epatica contratta in Svizzera). Buon per lui, ma Quetto se lo portò nel bagaglio a mano o lo lasciò in Egitto, come quando si va in vacanza e si lascia il cagnolino a un amico?

Quetto venne affidato momentaneamente al cavalier Maurizio Bussa, caro amico di Castagnone. Pochi mesi dopo, realisticamente all’inizio del 1838 o perfino già nel 1837 (date incerte), Maurizio Bussa portò Quetto in Piemonte. Il 10 giugno 1838 Quetto venne battezzato da Michele Amatore Lobetti, vescovo di Asti, presso la chiesa di Quattordio dove ancora oggi è esposta la targa commemorativa dell’evento. Prese il nome Michele Amatore in onore del vescovo e per l’amore che nutriva per la nuova patria (il nome completo era Michelangelo Maria Maurizio Amatore).

È curioso che non abbia preso il cognome Bussa, come sarebbe stata la norma visto che il cavaliere lo aveva presentato all’altare, e abbia preferito il simbolico Amatore. La madrina al battesimo fu la nobildonna Marianna dei conti Morra di Capernetta. Il parroco don Sardi, nell’atto del battesimo, scrisse che Michele Amatore era stato “ammaestrato alle cose della fede” da lui stesso. In realtà quel giorno Amatore non ricevette solo il battesimo: in un colpo solo ci fu anche cresima e santa comunione, come rivela Giovanni Bonelli, parroco di Quattordio, nel 1883 durante la cerimonia funebre di Michele Amatore.

Lapide commemorativa presso la Chiesa di Quattordio, collocata in pieno Fascismo (1938). Il razzismo dei fascisti uguale all’antisemitismo nazista? Certo, proprio, come no…

Dal 1838 fino all’8 agosto 1848 non esistono più documenti su Amatore. L’unica fonte di informazioni è Michele Lessona. Nel 1838 Amatore aveva 12 anni secondo l’esercito e 14 anni secondo il documento di battesimo. Lessona dice che Amatore, fattosi grandicello, tornò in Egitto per dedicarsi al commercio e che aveva grandi progetti commerciali tra il Cairo e Khartum. Ricordiamo gli ottimi contatti che aveva grazie al “padre adottivo”, Luigi Castagnone, e grazie al cavalier Bussa. Progetti che avrebbero potuto renderlo ricco, ma arrivò il 1848 e la Prima Guerra di Indipendenza. Michele Amatore partì dal Cairo per Livorno, da Livorno si imbarco per a Genova e da lì venne inviato al centro di raccolta dei volontari interessati al corpo dei Bersaglieri presso Casale Monferrato, dove si arruolò l’8 agosto 1848.

Lessona ci racconta che Amatore appena arruolato non sapeva leggere, ma che si intestardì a studiare più che poteva al punto da prendere di soppiatto la chiave della scuola del reggimento per andare a esercitarsi alla lavagna nelle ore di riposo. Imparò a scrivere con ottima calligrafia e studiò con profitto geometria, aritmetica e lingua francese (necessaria anche per capire meglio gli ufficiali). Il genere di recluta che chiunque avrebbe fatto caporale alla prima occasione, come infatti accadde: il primo di gennaio del 1849 era già sottocaporale e il primo di marzo divenne caporale.

A quanto dichiara il suo foglio matricolare, Amatore “ha fatto la campagna di guerra dell’anno 1849 contro gli austriaci”. Non si hanno altri dettagli per cui bisognerebbe vedere dove la sua compagnia era impegnata. Forse ha partecipato alla disfatta di Novara del 23 marzo 1849. Boh. Di sicuro partecipò alla repressione dei Moti di Genova del 1849.
Venticinquemila uomini al comando di Alfonso La Marmora e del fratello Alessandro piombarono su Genova per reprimere l’insurrezione. Tra i tremila bersaglieri al comando di Alessandro La Marmora c’è Michele Amatore, inquadrato nella 4° compagnia del 1° battaglione.

Cronologia del Sacco di Genova del 1849

In modi non esattamente edificanti i moti di Genova vennero repressi. In quel disastro di stupri, omicidi di cittadini innocenti e furti, si distinse per il coraggio (medaglia d’argento al valor militare per il ristabilimento dell’ordine il 3 e 4 aprile) e per la correttezza del suo operato Michele Amatore.
Tra i luoghi di scontro vi fu il Palazzo del Principe, proprietà di Domenico Doria Pamphilj. Naturalmente il palazzo subì dei danni per le sparatorie tra i soldati e gli insorti e forse al Doria Pamphilj i neri non stavano molto simpatici per cui decise di accusare Michele Amatore. Il 5 agosto pubblicò un’infamante accusa sul giornale La Bandiera del Popolo contro un certo sergente moro dei Bersaglieri che aveva preso parte ai saccheggi nel palazzo nei primi giorni d’aprile (i giorni di scontri per cui Amatore aveva ricevuto la medaglia).

L’accusa era senza fondamento, come venne subito dimostrato: il giorno dopo il Sotto Capo di Stato Maggiore Agostino Petitti replicò pubblicando la deposizione di Gaetano Firao, cameriere di Doria e unico testimone oculare degli eventi, fatta il 30 aprile davanti all’Uditore di guerra della 6° Divisione.
Firao dichiarò “tutta la sua gratitudine al sergente bersagliere moro, vero galantuomo, che nella trista circostanza gli aveva a più riprese salvato la vita”.

Il Principe Doria non poteva ignorare che mentiva e pubblicava una calunnia.

(Agostino Petitti)

Il giorno stesso, 6 agosto, Michele Amatore si presentò da Doria per chiedere conto delle accuse. Doria si scusò e pubblicò una parziale ritrattazione il 7 agosto, ma non ritirò le accuse: dichiarò che la notizia del saccheggio gli era giunta dal suo cameriere (quello che pubblicamente aveva però detto tutt’altro, mesi prima) e che sperava che Amatore fosse trovato innocente al termine del processo.
Doria sperava di cavarsela così a buon mercato, ma non la passò liscia.

La sera del 7 agosto uno scherzetto attendeva Doria al teatro.
Venne circondato da molti ufficiali dei Bersaglieri che gli intimarono di ritrattare tutto ciò che aveva detto contro Amatore. Doria rispose che la verità era quella che aveva pubblicato. Due ufficiali, uno per braccio, lo immobilizzarono e fecero venire Amatore che gli piantò in faccia un bello schiaffone. Gli ufficiali esplosero in un grande applauso e Doria dovette fuggire dal teatro con la coda tra le gambe, mentre La Marmora da un palco mezzo nascosto osservava la scena (che quasi certamente aveva orchestrato).

Michele Amatore in divisa da ufficiale (1859 circa).

Doria dopo il fattaccio del teatro tentò di sfidare a duello l’ufficiale superiore di Amatore, Longoni, ma questi rifiutò perché la sfida andava fatta direttamente ad Amatore. Doria si rifiutò a sua volta perché Amatore era soltanto un sergente. Alla fine Longoni dovette accettare il duello, ma un assessore con due carabinieri piombò sul luogo predisposto, i giardini di villa Lomellini a Pegli, e intimò agli aspiranti duellanti di fermarsi.
Seguì un nuovo scambio di accuse sui giornali e le tensioni tra bersaglieri e genovesi salirono. Amatore alla fine venne trovato colpevole di un piccolo abuso, l’aver arrestato mentre non era in servizio un certo Vaccari che lo stava ingiuriando pubblicamente.

A mio parere avrebbe dovuto trafiggerlo sul posto come un pollo, nel modo in cui gli ufficiali tedeschi tra 1890 e 1910 trattavano i dissidi con i grassi borghesi irrispettosi, ma forse era troppo galantuomo per pensarci. A mia opinione se un civile, la cui vile arma è la lingua, non sa tenerla a freno allora un militare, la cui nobile arma è la sciabola, ha diritto di non tenere a freno la propria. Ma in fondo Amatore non era ancora un ufficiale per cui il caso era diverso.

La situazione a Genova divenne sempre più brutta e si rischiava una nuova insurrezione: per calmare le acque il tribunale di Novi Ligure condannò Amatore il 12 aprile 1850 a un mese di reclusione. A ingiustizia si sommò ingiustizia, secondo la tipica dottrina italiana per cui il secondo schifo compensa il primo, e capra e cavoli furono salvati.

Moti moderni…

Arrivò la Seconda Guerra di Indipendenza.
Il 24 giugno 1859 vi fu la battaglia di Solferino e San Martino, con gli alleati francesi schierati a Solferino e gli italiani tra San Martino e la Madonna della Scoperta. Michele Amatore era sergente e comandava un reparto nella 16° compagnia (comandata dal capitano Sacchini) del 4° battaglione Bersaglieri, presso il 2° reggimento (brigata Savoia) della prima divisione agli ordini del generale Giovanni Durando. Fu proprio il battaglione in cui serviva Amatore a frenare l’avanzata degli austriaci quando furono sul punto di piombare sull’artiglieria italiana.

Domenica Casella, all’epoca sottotenente, raccontò un aneddoto curioso sul coraggio da scavezzacollo di Amatore. Appena arrivato presso Madonna della Scoperta scoprì che il sergente Amatore stava progettando di prendere il proprio reparto e lanciarsi all’assalto di una batteria austriaca che stava bombardando la compagnia dall’altura. Casella gli diede del pazzo, vietò l’eroico assalto “suicida” e fece muovere l’intera compagnia verso la batteria nemica. Questo accenno di assalto bastò a farla fuggire via: gli austriaci credettero che dietro i pochi bersaglieri vi fossero altre forze in arrivo. Forse non riuscivano ad accettare un simile livello di badassery da parte di una sola compagnia di bersaglieri.

Amatore per l’eroismo nella Battaglia di San Martino venne promosso sottotenente, poi tenente il 2 maggio 1860 e infine capitano il 6 giugno 1863 nel 3° reggimento Bersaglieri. Come capitano partecipò alla guerra del 1866 e ricevette, per motivi che ignoro, la croce di bronzo prussiana.
Sempre per motivi che ignoro divenne cavaliere del prestigioso ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, lo stesso di cui fu commendatore l’astronomo Giovanni Schiaparelli.

Michele Amatore, capitano dei bersaglieri (1867 circa).

Nel 1866 esplose l’insurrezione di Palermo e Monreale. Amatore a Monreale partecipò alla repressione delle rivolte e al soccorso delle popolazioni colpite dal colera (ricevette la medaglia per la lotta al brigantaggio nel 1868 e quella per i soccorsi nel 1869).
Il comitato di salute pubblica di Monreale era presieduto dall’arcivescovo Benedetto d’Acquisto e sia lui che Amatore fecero di tutto per aiutare la popolazione. Il parroco di Rosignano Monferrato raccontò a riguardo un episodio interessante. Amatore aveva bisogno di altri soldi per i soccorsi e andò dall’arcivescovo, ma questi non aveva più fondi (aveva già tirato fuori di tasca propria duemila lire) e gli mise la croce arcivescovile in mano: “Prendete, capitano, non ho più nulla da darvi, ma in tali circostanze un vescovo vende anche la croce!”. Amatore gli rimise la croce al collo e rispose: “No, monsignore. Ella deve tenere la sua croce: piuttosto io venderò le mie spalline!”.

Da qui in poi le notizie su Amatore si fanno di nuovo vaghe.
Si sa che nel 1871 venne assegnato all’8° reggimento Bersaglieri costituito a Palermo e che nell’ottobre del 1879 era a Milano per sposarsi con Rosetta Brambilla. Nel 1880 si ritirò dall’esercito e andò a vivere a Rosignano Monferrato. Il canonico Camillo Bontri di Rosignano scrive che Amatore era invalido e zoppicante e che tutti lo amavano, i bambini gli correvano incontro e lui distribuiva caramelle e li baciava sulla fronte (e loro si pulivano per timore di essere “tinti di nero da quell’uomo di cioccolata”… il fatto di distribuire dolcetti forse aveva facilitato il collegamento?). Si dice sulla wikipedia italiana, senza riportare fonti, che negli ultimi anni divenne cieco, ma di questo non c’è alcun riscontro nelle poche fonti disponibili (e la foto presente nella pagina, in cui si nota una cicatrice all’altezza dell’occhio sinistro, è collocata da Alciati nel 1867). Non so che dire, non resta che sperare in una seconda edizione espansa della biografia a cura di Alciati.
Michele Amatore morì il 9 giugno 1883 (le date riportate dalle diverse fonti variano: 7-8-9 giugno), senza aver avuto figli.

Targa posta sulla casa in cui visse Michele Amatore negli ultimi anni.

Così come ritengo che bisognerebbe tornare a commemorare Garibaldi il 2 giugno, anniversario della sua morte (2 giugno 1882), mi sembrerebbe una buona idea ricordarsi anche di Michele Amatore ogni 9 giugno come simbolo di un’integrazione attiva per merito, volontà ed eroismo, contrapposta alla cittadinanza passiva per sangue o per suolo.

Non credo nell’importanza delle razze, ma credo nell’importanza della società nel plasmare i cittadini di qualsiasi razza siano: non importa che un uomo sia nato bianco o negro, tra i sacri vigneti della bella terra Astigiana o in una capanna di fango nella Puglia Nera, importa che sia educato come un bianco rispettabile e adotti i costumi e gli ideali della nazione a cui chiede di appartenere.
E il sacro compito dell’uomo bianco di insegnare ai negri di tutto mondo a bere il tè e mangiare con le posate, un giorno verrà portato a compimento!

Altorilievo sulla lapide nel cimitero di Rosignano Monferrato.

Bibliografia e webografia:

 

Il Duca di Baionette

Sono appassionato di storia, neuroscienze e storytelling. Per lavoro gestisco corsi, online e dal vivo, di scrittura creativa e progettazione delle storie. Dal 2006 mi occupo in modo costante di narrativa fantastica e tecniche di scrittura. Nel 2007 ho fondato Baionette Librarie e nel gennaio 2012 ho avviato AgenziaDuca.it per trovare bravi autori e aiutarli a migliorare con corsi di scrittura mirati. Dal 2014 sono ideatore e direttore editoriale della collana di narrativa fantastica Vaporteppa. Nel gennaio 2017 ho avviato un canale YouTube.

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