Ricordate la mia riflessione di tre anni fa sulla natura negra di noi lettori?
L’articolo prendeva spunto da questo spezzone che proviene dal secondo episodio della miniserie TV Radici del 1977, basata sull’omonimo romanzo di Alex Haley. È una bella miniserie: ci sono dei negri, ci sono dei bianchi, i primi sono schiavi dei secondi. Molto bello.
Ho aggiunto una riflessione supplementare sul video in fondo a questo articolo, qui.
Proprio in questi giorni sto vedendo di nuovo Radici e sono incappato in un paio di altri spezzoni molto interessanti su un problema che mi stava incuriosendo, quello della fuga degli schiavi. Uno pensa agli schiavi e si immagina una cosa arretrata, roba finita 50 anni fa, niente a che vedere con noi uomini moderni del 1912, giusto?
Nulla di più sbagliato (a parte la fornicazione). Pensate ai grigi lavori, quando va bene e si ha un lavoro, e alla voglia di fuga e di cambiare vita. Pensate alle condizioni di lavoro. Siamo onesti, gli schiavi liberati negli USA dopo il 1865 sono stati spesso peggio di come stavano prima della guerra e se parliamo di Europa, beh, dall’abolizione della servitù della gleba da parte di Alessandro II che ha creato masse di contadini “liberi” indebitati e affamati, siamo arrivati fino alla condizione attuale dei co.co.pro. che non è che sia molto meglio.
La fuga è un tema attualissimo. Nella New Economy, quella del tabacco e del cotone egiziano a fibra lunga, orde di co.co.pro. con rinnovo automatico a vita tramite l’agenzia proprietaria si spaccheranno la schiena, lucidando col loro sudore questo nuovo, suggestivo, trionfo del capitalismo finanziario: il Neofeudalesimo. E quando giungerà l’ora, me ne prenderò uno robusto!
Ma come è possibile la fuga?
Pensiamoci, lo schiavo sta meglio di tante altre persone. Sta meglio di un operaio del Settecento a Londra. Ha cibo, sa che il padrone non lo lascerà morire (a meno che non sia un pazzo, ma pure da noi le morti sul lavoro non è che siano poche), ha sicurezza sociale e può con queste certezze pianificarsi una vita, avere una famiglia. Certezze che da anni mancano ai giovani d’oggi. Condizioni di vita che un co.co.pro. si sogna. In più sta facendo il lavoro per cui è adatto e non il Babbo Natale con la laurea in ingegneria aerospaziale o il centralinista che è un fisico nucleare…
Eppure fugge.
Il negrone qui sotto è Kunta Kinte, un Bingo Bongo[Nota] stranamente sprovvisto di hunga munga, arma micidiale (per sé stessi) e raffinato strumento culturale per affettare il cocomero, tagliare le banane dagli alberi e mangiare il pollo fritto (i centopiedi invece li si infilza con un bastoncino).
Bizzarra assenza, invero, bizzarra.
Nonostante tutti i benefici e la bella vita di cibo e lavoro, Kunta Kinte fugge per tre volte sapendo benissimo che se andrà bene verrà catturato, picchiato e riceverà un sacco di frustate a casa. Se andrà male finirà nelle mani di qualche cacciatore pazzo che lo torturerà a morte e lo lascerà come monito in mezzo alla strada. Non ha nessuna possibilità di tornare libero: il Canada è troppo distante e lui non può diventare bianco per passare inosservato.
Continuare a fuggire e a ricevere frustate, come una bestiolina rincretinita che morde il cibo elettrificato, è un comportamento folle se consideriamo che Kunta Kinte è più intelligente di tanti altri negri. E quell’impulso irresistibile che lo porta a fuggire, quell’autentica febbre della fuga, non colpisce gli altri negri della piantagione: solo lui è ridotto in quello stato, causando stupore e timore nel vecchio e saggio Violino (il suo migliore amico).
Alla quarta fuga i cacciatori gli amputano metà del piede destro per impedirne altre. Passano gli anni e nonostante la menomazione che lo ha reso permanentemente zoppo, Kunta Kinte viene di nuovo colto dalla frenesia della fuga quando ormai ha una famiglia, una figlia nata da poco e serve sotto un padrone saggio, buono e generoso. Sta meglio di praticamente tutti gli operai londinesi dello stesso periodo, la fine del Settecento. Solo per un pelo l’amore per la famiglia gli permette di resistere alla voglia di correre via, verso il nulla, con altri negri febbricitanti dello stesso desiderio irrealizzabile, certo solo di venire catturato di nuovo.
Fortunatamente la scienza medica ha permesso di svelare il mistero. L’egregio dottor Samuel Adolphus Cartwright, della Virginia, ha pubblicato sul numero del maggio 1851 di The New Orleans Medical and Surgical Journal un articolo intitolato Report on the Diseases and Peculiarities of the Negro Race, in cui affronta anche questa malattia mentale tipica della razza negra: la drapetomania.
Sperando di far cosa gradita a chi, come me, cerca una risposta a questo dilemma razziale e ambisce a una soluzione per guarire i negri colpiti da questo terribile male, ho tradotto parte dell’articolo in italiano.
Dall’inizio dell’articolo:
Prima di entrare nelle peculiarità delle loro malattie, è necessario dare uno sguardo alle differenze anatomiche e fisiologiche tra l’uomo negro e l’uomo bianco, altrimenti le loro malattie non possono essere comprese. È spesso dato per scontato che il colore della pelle sia la principale ed essenziale differenza tra la razza negra e la razza bianca. […] Anche il cervello del negro e i nervi, il chilo e gli altri umori, sono colorati con una sfumatura di pervasiva oscurità. La sua bile è di un colore più intenso e il sangue e più nero di quello dell’uomo bianco. C’è la stessa differenza nella carne tra il bianco e il nero, per quanto riguarda il colore, di quella che esiste tra le carne di coniglio e la carne di lepre.
Bestiacce strane, decisamente. E sgradevoli, perbacco!
Che una fisicità tanto oscena sia ricettacolo anche di oscene turbe della mente?
Così è, invero, ed ecco il male di cui volevo parlare (ma ce ne sono altri ancora):
Drapetomania, o la malattia che porta i negri a fuggire.
[…] Non è conosciuta dalle nostre autorità mediche, anche se il suo sintomo diagnostico, la fuga dal servizio, è ben nota ai nostri coltivatori e ai sorveglianti […]
Nell’annunciare una malattia finora non classificata nella lunga lista dei malanni a cui l’uomo è soggetto, è necessario disporre di un nuovo termine per chiamarla. La causa che induce il negro a scappare dal servizio, nella maggior parte dei casi, è una malattia della mente come qualsiasi altra forma di alienazione mentale ed è molto più semplice da curare, in generale. Avvantaggiandosi di adeguati consigli medici, da seguire rigidamente, l’abitudine problematica che hanno tanti negri di fuggire via può essere interamente prevenuta, anche nel caso in cui gli schiavi abitino al confine con uno stato libero, a un tiro di pietra dagli abolizionisti.
[…]
Se l’uomo bianco cerca di opporsi alla volontà di Dio, tentando di fare del negro qualcosa di diverso dal “sottomesso genuflesso“[Nota] (che l’Onnipotente ha decretato che fosse), cercando di elevarlo al proprio livello, o ponendo sé stesso in un rapporto di eguaglianza col negro, o se abusa del potere che Dio gli ha dato sul suo compagno trattandolo crudelmente, punendolo quando si è arrabbiati o negandogli la protezione dagli abusi dei compagni servi e di tutti gli altri, o negandogli le normali comodità e necessità per vivere, il negro scapperà via. Ma se lo mantiene nella posizione che sappiamo le Scritture intendono fargli occupare, quella del sottomesso e se il suo padrone o sorvegliante è gentile e cortese con lui, ma senza condiscendenza, e allo stesso tempo soddisfa i suoi bisogni fisici e lo protegge dagli abusi, il negro sarà ammaliato e non potrà fuggire via.
[…]
In base alla mia esperienza, il “genu flexit”, la soggezione e la riverenza, devono essere pretesi da loro altrimenti disprezzeranno i padroni, diventeranno scortesi e ingovernabili e fuggiranno via. […] due tipi di persone sono portate a perdere i loro negri: quelli che sono con loro troppo famigliari, li trattano come eguali, e fanno scarsa o nessuna distinzione per il colore della pelle; e, dall’altra parte, quelli che li trattano crudelmente, negano loro le semplici necessità delle vita, non li proteggono dagli abusi degli altri o li spaventano con approcci minacciosi quando devono punirli per le loro malefatte. Prima che i negri fuggano, a meno che non siano spaventati o colti dal panico, diventano imbronciati e insoddisfatti. La causa di questo malumore e di questa insoddisfazione va rintracciata e rimossa o saranno portati a fuggire via o cadere preda della consunzione dei negri [nota: un altro malanno trattato nell’articolo]. Quando sono imbronciati o insoddisfatti senza motivo, l’esperienza di coloro che si occupano di queste cose è decisamente in favore a frustarli fino a fare uscire il malumore, come misura preventiva contro il darsi alla latitanza o altre cattive condotte. Veniva chiamata frustare il diavolo fuori.Se trattati gentilmente, ben nutriti e vestiti, con combustibile sufficiente per mantenere un piccolo fuoco acceso tutta la notte – separati in famiglie e ogni famiglia con la propria casa – senza il permesso di vagare di notte per visitare i vicino, di ricevere visite o usare liquori intossicanti, e se non oberati di lavoro o esposti troppo alle intemperie, sono molto facili da governare – più di qualsiasi altra popolazione del mondo.
Quando tutto ciò è garantito, se uno di loro o più di uno, in qualsiasi momento, è portato ad alzare la testa e mettersi sullo stesso piano del loro padrone o sorvegliante, l’umanità e il loro stesso bene necessitano che siano puniti fino a ricadere nello stato sottomesso che è stato previsto per loro fin da quando il loro progenitore ricevette il nome di Canaan o “sottomesso genuflesso”. Devono essere mantenuti in questo stato e trattati come bambini, con cura, gentilezza, attenzione e umanità, per prevenire e curare le fughe.
L’articolo è riportato per intero nel settimo volume di raccolta di The New Orleans Medical and Surgical Journal, telefonoscopioridotta in PDF da Google.
Samuel Adolphus Cartwright (1793-1863)
Luminare della scienza medica.
A chi, stolto che non ha fiducia nella scienza medica, dubita delle parole dell’esimio dottor Cartwright, un autentico luminare nel suo campo, voglio ricordare la disciplina atletica dei cento metri piani.
Come è noto i cento metri piani sono dominati dalla razza negra, ma forse non avete mai riflettuto su cosa siano davvero i cento metri piani: sono una fuga, rapidissima. Ed ecco che il negro, la cui razza anela la fuga ed è per questo l’unica a soffrire di drapetomania, per pochi secondi ha quella marcia in più che lo rende più rapido di un bianco. Scatta e fugge a razzo e dopo cento rallenta, col corpo che in ritardo rammenta la propria condizione di uomo libero e non di schiavo in fuga. Tant’è che lo stesso Usain Bolt ha rammentato nel corso delle olimpiadi appena trascorse quanto sia diverso fare i duecento metri, che pure non sono certo una maratona, rispetto ai cento (ed avendo lui il più vigoroso caso di drapetomania della storia, da far invidia a Kunta Kinte, ha vinto l’oro anche nei duecento).
Dite che affermo sciocchezze? Guai a voi, stolti: pensate che disporre dietro agli atleti NEGRI, guarda caso, proprio dei signori BIANCHI, spesso con l’aspetto rubizzo di un proprietario terriero, e che la partenza sia annunciata non con un gentile fischio, o con una bandierina che discenda o con un semaforo, ma proprio con lo sparo di una pistola, sia solo una buffa serie di coincidenze?
Vedete e credete:
Non è la scienza medica una meravigliosa disciplina capace di spiegare tanti misteri dell’uomo? Poffarbacco se lo è, invero!
Riflessione supplementare sul primo video.
Una delle cose più divertenti della miniserie Radici è che nonostante voglia essere una rappresentazione credibile dell’epoca, alcune delle peggiori idee razziste (sostenute dai bianchi del film, che in teoria sarebbero dovuti apparire come dei razzisti che dicono idiozie razziste) sono presentate coi fatti come se fossero vere. E ci sono più bianchi buoni e generosi che negri davvero intelligenti. A parte l’ossessione di Kunta Kinte per le fughe irragionevoli, che in fondo si può giustificare, c’è il caso di sua figlia, una ragazza molto intelligente a cui la padrona bianca (una coetanea) ha insegnato a leggere e a scrivere. Con la sua superiore cultura (né il padre Kunta Kinte né gli altri negri sanno leggere), la ragazza si monta la testa e pensa di poter violare le regole, essere come una bianca, al punto di falsificare un lasciapassare per amore di uno schiavo a cui vuole favorire la fuga.
Questo porta a una catastrofe (cattura del ragazzo e scoperta del documento falso) a cui segue la vendita della ragazza che viene comprata da un padrone molto peggiore (il dottore era una sorta di santo con l’orrore della frusta) che già dalla prima sera inizia a stuprarla per mesi, fino a metterla incinta (uno schiavo gratis!). E cosa avevano detto nel video sull’insegnare a leggere ai negri e sul dolore che un mutamento della loro condizione “inconsapevole” può portare? Altro che sciocca idea razzista presentata per mettere in cattiva luce i bianchi dell’epoca: il film ha dimostrato, nella sua storia, che era VERA!
Nel leggere la spiegazione del dottor Cartwright sulla drapetomania è possibile notare un altro elemento a favore delle idee razziste in Radici: è proprio il rapporto di eguaglianza, l’essere le “migliori amiche”, tra la ragazza bianca e la figlia di Kunta Kinte a riempire la testa di quest’ultima di sciocche idee di una fuga per amore. Il buon padrone è invece quello gentile e generoso, ma fermo e che mantiene il negro al suo posto (anche a costo di doverlo punire contro la propria volontà, soffrendo per averlo fatto), come il dottore, non lo sciocco che illude il negro di essere come il bianco.
Nota: ci sono delle differenze nei cognomi e nei rapporti di parentela tra libro e miniserie, per cui ho evitato di precisare troppo.
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Nota sul Bingo Bongo.
Nello specifico Kunta Kinte è un Mandingo che sembra un nome razzista quanto bingo bongo, roba da attore porno specializzato in film alla Blacks on Blondes (che ovviamente mi ripugnano e li conosco solo per poter ammonire le fanciulle per bene dal vederli), ma invece è il vero nome di uno dei principali gruppi etnici dell’Africa (chiamati anche Mandinka o Malinke).
Per ulteriore lulz il fiume accanto al villaggio di questo Bingo Bongo si chiama Kambi Bolongo (che noi occidentali chiamiamo più dignitosamente Gambia). Seriamente, amici africani: prendete per il culo o fate sul serio?
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Nota su “sottomesso genuflesso”.
Nel testo inglese era “submissive knee-bender”. La definizione del negro come schiavo e la giustificazione (usata prevalentemente dall’Islam) per il commercio dei negri è presa dal nono capitolo della Genesi nel Pentateuco. Per leggere la versione interconfessionale clicca qui: ▼
Con Noè uscirono dall’arca i suoi figli: Sem, Cam, che fu il padre di Canaan, e Iafet. Da quei tre figli di Noè ha avuto origine tutta la popolazione della terra. Noè fu agricoltore e fu il primo a piantare una vigna. Un giorno bevve il vino, si ubriacò e si addormentò nudo nella sua tenda. Cam, padre di Canaan, vide suo padre nudo e uscì a dirlo ai suoi due fratelli. Ma Sem e Iafet presero un mantello, se lo gettarono tutti e due sulle spalle e, camminando all’indietro, coprirono il loro padre che era nudo. Poiché voltavano la faccia dall’altra parte essi non videro il padre nudo. Quando Noè non fu più ubriaco venne a sapere quel che aveva fatto suo figlio minore. Allora disse:
“Canaan sia maledetto,
sia lo schiavo degli schiavi
dei suoi fratelli!”.
Poi disse ancora:
“Il Signore, il Dio di Sem,
sia benedetto.
Canaan sia lo schiavo di Sem!
E Dio conceda spazio a Iafet!
Possa egli abitare nelle tende di Sem
e Canaan sia lo schiavo di Iafet!”.
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