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Lo Steampunk e il Risorgimento

Questo articolo è un po’ grandicello (20.130 parole). Ho preferito mettere tutte queste cose diverse assieme perché sono tutte parte dello stesso macro-argomento. Per favorire la lettura e la navigazione ho preparato un indice interno. Viva Ferdinando II delle Due Sicilie. E viva le fatine che mostrano le mutandine.

Indice dell’articolo:
Introduzione
Il Pantelegrafo di Giovanni Caselli
Alessandro Cruto, il genio italiano delle lampadine
Il motore a scoppio Barsanti-Matteucci
L’automa di Innocenzo Manzetti
Il telefono di Bell e Meucci
Il telefono di Manzetti
Menabrea, pioniere italiano dell’informatica
Spunti misti ulteriori
L’altra Italia: il Regno delle Due Sicilie
Perché scegliere il Regno delle Due Sicilie

Introduzione

Questo è un post di spunti storici e tecnologici per ambientare le proprie fantasie Steampunk nell’Italia del Risorgimento. Ho scelto di limitarmi il più possibile al Risorgimento perché il periodo 1870-1914 aggiungerebbe tanti altri spunti (anche per lo Steampunk Spaziale, a cui dedicherò un post di spunti in futuro) da produrre un eccessivo miscuglio di elementi troppo poco collegabili tra loro a causa della la distanza cronologica e politica. Data l’importanza del personaggio ho comunque inserito Alessandro Cruto come unica scappatella oltre il 1870 e, a causa di Manzetti, ho dovuto parlare per completezza anche di Meucci. Lo steampunk comunque è anche retrofuturismo: se il nome lo permette è doveroso retrodatare le invenzioni per accelerare il progresso! ^_^

Ho lasciato da parte la narrativa del periodo perché non sapevo cosa citare “di italiano” che fosse rilevante come stimolo per lo Steampunk (ovvero romanzi scientifici), e mi dispiace: quando parlerò di basi storico-letterarie per lo Steampunk Spaziale darò alla narrativa del lungo XIX secolo un posto fondamentale! Per chi dovesse avere gravi lacune sulla storia del Risorgimento rimando a queste pagine: Risorgimento e guerre di indipendenza italiane.

Perché il Risorgimento italiano?
Non tirerò fuori balle sul parlare del proprio paese o della propria storia o altre menate da Guru Mongolo. Non è più semplice parlare dell’Italia di 150 anni fa invece che dell’Irlanda solo perché si vive nella Milano di oggi. Per una persona normale il Regno di Sardegna nel 1859, la Londra del 1870 e la Germania Guglielmina del 1890 sono tutte e tre altrettanto aliene e distanti: informarsi su una o sull’altra poco importa, anche se su Londra a quanto ho visto è più facile trovare abbondante saggistica. Ciò che però rende appetibile il Risorgimento italiano è che, a quanto mi pare di aver capito, è poco (o per nulla, al momento attuale?) sfruttato in ambito Steampunk.

Di gente che parla di Londra o della Guerra Civile Americana ce ne è a tonnellate, grazie all’abbondanza di spunti tratti dai romanzi scientifici e dalla fantascienza del periodo, unita alla nascita anglosassone dello Steampunk. La Germania mi risulta poco sfruttata, ma questo può dipendere dal fatto che non essendo tradotte in inglese non conosco le eventuali produzioni locali (mentre invece di quella francese qualcosa so). Se i francesi, veri estimatori continentali dello Steampunk, possiamo aspettarci che parlino dello loro Francia (es: il fumetto Hauteville House è profondamente francese nel ruolo che dà alla resistenza supertecnologica capeggiata da Victor Hugo contro Napoleone III) e i tedeschi possiamo immaginare che parlino della loro Germania (se non lo dovessero fare, cazzi loro: è piena di spunti entusiasmanti), mentre tutto il mondo parla di Londra (la città simbolo dello Steampunk), mi pare naturale immaginare che ben pochi all’estero avranno mai validi motivi per dedicarsi all’Italia.

La presa di Porta Pia. Uno dei momenti che preferisco nei rapporti tra Stato e Chiesa.
Il moribondo è il maggiore Giacomo Pagliari, del 34° Bersaglieri.

C’è molto meno materiale da cui partire dal punto di vista della narrativa (fanta)scientifica del periodo, e questo è un grosso svantaggio, ma c’è anche la possibilità di usare elementi storici diversi dal solito. Non dico di italianizzare lo Steampunk a tutti i costi, né farò campagne dannunziane per chiamare il brandy “arzente”, ma se vi capita il ghiribizzo di ambientare le proprie storie in una penisola così poco sfruttata, non vedo motivo per non approfittarne!
Questa mia carrellata di spunti tecnologici spero possa stimolare gli appassionati di Steampunk italiani a sostituire nelle proprie fantasie Tesla, Edison e Babbage con Manzetti, Caselli e Menabrea, l’assedio di Sebastopoli con la Battaglia di San Martino e la Guerra Civile Americana con la Spedizione dei Mille. O qualcosa di simile. ^_^

E che dire della lotta al brigantaggio, dietro cui si nascondevano massacri di contadini poverissimi, e della questione meridionale, condita dal razzismo che i nuovi padroni mostravano nei confronti degli abitanti del sud, in particolare contro i calabresi ritenuti “trogloditi”? E la teoria della goccia di sangue negro degli italiani del sud, oppure la suddivisione degli italiani in due razze, “eurasica” (i polentoni) ed “eurafricana” (i terroni)? Su wikipedia ci sono un paio di nomi e spunti da cui partire.

«Questa è Africa! Altro che Italia!
I beduini, a riscontro di questi cafoni, sono latte e miele.»(Enrico Cialdini, luogotenente del re Vittorio Emanuele II a Napoli)

Lo steampunk, come tutta la fantascienza, non nega lo spazio a chi vuole fare un po’ di sano revisionismo storico o di critica sociale: nell’ambito dell’unificazione d’Italia, oltre al patriottismo e al coraggio, ci sono quintali di soprusi e brutture da cui attingere. Non fu una unificazione guidata dall’alto, ma voluta anche dal basso, come invece fu quella tedesca, bensì un processo di annessioni militari da parte del Regno di Sardegna (in cui la lingua dei “potenti” era il francese, più che l’italiano) a scapito di entità politiche abitate da poveracci a cui dell’Unità d’Italia non fregava proprio niente. Non si stava facendo l’Italia assieme, seppur partendo dalla posizione di forza militare del Regno di Sardegna (come fece la Prussia in Germania, ad esempio), ma si stava piemontesizzando con la forza gli altri, che lo volessero o meno!

«Non potete negare che intere famiglie vengono arrestate senza il minimo pretesto; che vi sono, in quelle province, degli uomini assolti dai giudici e che sono ancora in carcere. Si è introdotta una nuova legge in base alla quale ogni uomo preso con le armi in pugno viene fucilato. Questa si chiama guerra barbarica, guerra senza quartiere. Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue, non so più come esprimermi.»

(Il deputato Giuseppe Ferrari, 29 aprile 1862)

«Enrico Cialdini, plenipotenziario a Napoli, nel 1861, del re Vittorio. In quel suo rapporto ufficiale sulla cosiddetta “guerra al brigantaggio”, Cialdini dava queste cifre per i primi mesi e per il solo Napoletano: 8 968 fucilati, tra i quali 64 preti e 22 frati; 10 604 feriti; 7 112 prigionieri; 918 case bruciate; 6 paesi interamente arsi; 2 905 famiglie perquisite; 12 chiese saccheggiate; 13 629 deportati; 1 428 comuni posti in stato d’assedio. E ne traevo una conclusione oggettiva: ben più sanguinosa che quella con gli stranieri, fu la guerra civile tra italiani»

(Vittorio Messori, Le cifre del generale Cialdini)

Nel romanzo fantasy Zeferina (che in generale non mi è piaciuto granché) i problemi causati dal passaggio del nord-est dal dominio austriaco (che era gente dura, ma onesta e coi soldi) a quello piemontese (gente ugualmente dura, ma che NON tira fuori i soldi e rovina l’economia della regione) è ben resa.
Comunque non dimentichiamo che lo Steampunk NON è “romanzo storico”, ma “fantastoria/ucronia” o, più in generale, “gonzo-historical fiction”: va bene la critica sociale, va bene il revisionismo, va bene tirar fuori i lati oscuri del Risorgimento… ma senza dimenticare le componenti retrofuturistiche e/o science-fantasy! Chiaro? ^_^

Il Pantelegrafo di Giovanni Caselli

Giovanni Caselli (1815-1891) è il padre del pantelegrafo, l’antenato del fax. “Pantelegrafo” nasce dalla somma di due parole, pantografo e telegrafo. Come il nome fa immaginare col suo “pan” (tutto), il pantelegrafo è in grado di inviare tramite le linee del telegrafo una copia monocroma di qualsiasi immagine si desideri. Prima di vedere come funzionava, qualche informazione storica.

Giovanni Caselli aveva studiato fisica ed era stato allievo a Firenze di Leopoldo Nobili. Dopo aver preso i voti (fu anche abate) continuò a interessarsi di scienza, come molti altri religiosi del periodo (ad esempio Eugenio Barsanti, che vedremo dopo). Nel 1841 si trasferì a Parma per prendere servizio come istitutore dei figli del conte Luigi Sanvitale. Fu proprio l’aristocratico Sanvitale a far avvicinare Caselli agli ambienti favorevoli all’unificazione politica dell’Italia, tanto che dopo la sconfitta del Regno di Sardegna e la fine dei moti (1849) venne espulso come sovversivo e se ne tornò in Toscana. I soldi guadagnati lavorando per Sanvitale furono fondamentali per le sue ricerche scientifiche e anche lo spirito “italiano” con cui era stato contagiato rimase negli anni a venire, causandogli (come vedrete dopo) un grosso problema.

Caselli iniziò a interessarsi della trasmissione di testi e immagini a distanza mentre insegnava fisica all’Università di Firenze. Nel giugno 1855 creò un prototipo della sua macchina che presentò agli scienziati fiorentini. Nel 1856 effettuò la sua prima trasmissione e suscitò l’interesse di Leopoldo II, Granduca di Toscana. Caselli si trasferì a Parigi per lavorare al pantelegrafo con l’ingegnere Paul Gustave Froment che gli era stato consigliato da Léon Foucault, l’inventore del pendolo usato nel pantelegrafo e suo convinto sostenitore. Nel 1858 il nuovo pantelegrafo migliorato venne presentato all’Accademia delle Scienze di Parigi.

Pantelegrafo Caselli: il pendolo di 8 kg, necessario per dare il ritmo alla scansione, era montato su una struttura alta due metri. Non esattamente un oggetto da tavolo come il successivo Telefax o come il pantelegrafo Hummel del 1899.

Come funziona il pantelegrafo?

Il pantelegrafo ha un pendolo che gestisce il movimento del pennino collegato alla linea elettrica, gestendo il moto di scansione. I pendoli dei due pantelegrafi, ricevitore e trasmettitore, sono sincronizzati tra loro in modo che i pennini collegati siano sempre posizionati entrambi nello stesso punto del ripiano di scrittura/lettura. Due orologi a pendolo controllano la sincronia dei pantelegrafi.

Il testo o le immagini da trasmettere vanno scritte con un grasso inchiostro isolante (soluzione alcolica di gomma lacca) su un foglio di stagnola. Il ripiano curvo di rame e la stagnola sono dotati di una messa a terra che scarica la corrente. Una batteria garantisce la corrente elettrica al pennino di lettura. Quando il pennino percorre la stagnola disperde la corrente con la messa a terra, mentre quando incontra l’inchiostro isolante questo lo scollega dalla messa a terra e la corrente passa alla linea telegrafica, verso il pantelegrafo ricevente che si sta muovendo allo stesso modo sul suo foglio di copia.

Il foglio della copia è completamente diverso da quello per la trasmissione: è un foglio di carta imbevuta di ferrocianuro di potassio (che la rende giallastra), una sostanza che grazie all’elettricità cambia colore diventando di un bel blu di Prussia. In tal modo la copia pressoché perfetta (ha giusto un leggero effetto di righe di scansione non coperte) risulta di un bel blu su giallo, perfettamente utilizzabile o riproducibile su carta normale col pantografo.

Un video che vale più di tutta la spiegazione precedente: “Show, Don’t Tell!” vince sempre.
Animazione a cura di Mauro Ferrari per il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia “Leonardo da Vinci”.

Il 10 maggio 1860 l’Imperatore Napoleone III visitò il laboratorio di Froment e rimase tanto sbalordito dal pantelegrafo da concedere a Caselli di sfruttare le linee telegrafiche francesi e fargli proseguire le ricerche all’Osservatorio di Parigi. Nel novembre successivo la linea telegrafica tra Parigi e Amiens venne prestata a Caselli per effettuare un esperimento sulle lunghe distanze (140 km). Caselli inviò uno spartito con firma di Gioacchino Rossini. L’esperimento fu un successo tale che le corti di mezza Europa iniziarono ad interessarsi al pantelegrafo (anche chiamato “telegrafo universale” o, come vedremo dopo, “teleautografo” per la sua applicazione nell’invio delle firme a uso bancario).

Il primo “pantelegramma” della nuova rete venne inviato da Lione a Parigi, il 10 febbraio 1862. Già dal febbraio 1863 i cittadini delle due città potevano inviare pantelegrammi, al costo di 20 centesimi di franco per centimetro quadrato più 10 centesimi di tassa. Nel 1864 la legge rendeva le copie del pantelegrafo pienamente legali (ad esempio per l’invio di firme o documenti). La rete si estese con il collegamento Lione-Marsiglia nel 1867. Napoleone III sognava di coprire con la rete pantelegrafica tutta le principali città francesi (anche per il vantaggio nella trasmissione rapida di mappe militari perfette). Nel primo anno vennero inviati quasi 5.000 pantelegrammi.

Lo zar Nicola I fece installare fin da subito un servizio di pantelegrafi per collegare il palazzo a Mosca con quello a San Pietroburgo. Anche l’Inghilterra si interessò al pantelegrafo. Il Re d’Italia Vittorio Emanuele II quando seppe del pantelegrafo lo volle alla prima Esposizione nazionale di Firenze (la stessa dove, come vedrete dopo, era presente il motore a scoppio Barsanti-Matteucci), ma lo strumento non lo impressionò più di tanto, forse anche per via delle ristrettezze economiche del Regno, ancora povero nonostante il saccheggio piemontese in atto al Sud.

Da “Treated of elementary Physics”, l’originale sopra e la copia sotto (che però è blu, in realtà).
Notare il leggero effetto di righe bianche sulla copia dovuta alla scansione non perfetta.

Quello che fermò la diffusione del pantelegrafo fu prima di tutto la testardaggine di Caselli che, da bravo patriota italiano, nel 1865 rifiutò di diventare cittadino francese (solo ai cittadini francesi la legge permetteva di vincere appalti pubblici importanti come quelli per una intera rete nazionale pantelegrafica). Il secondo problema, conseguenza anche dei ritardi dovuto al primo, fu la sconfitta di Napoleone III nella guerra franco-prussiana. Senza più l’Imperatore ad appoggiarlo e con il governo francese costretto a pagare una cifra folle alla Germania, non c’erano proprio soldi per la costosa rete pantelegrafica.

Nel 1884 tornò la Cina a chiedere il pantelegrafo, già visto nel 1863 da due emissari che ne erano rimasti entusiasti: era la soluzione perfetta per inviare ideogrammi (un interesse simile lo conobbe un secolo dopo il fax, spinto tantissimo dal mercato giapponese), ma la Cina non era paragonabile alla Francia come potenziale di diffusione… e nel frattempo erano passati troppi anni.

Bisogna ricordare che Caselli non era stato il primo a interessarsi al processo di produzione di copie di disegni a distanza. Gli inglesi Alexander Bain e Frederick Bakewell se ne erano occupati prima, tanto che arrivarono a cercare lo scontro legale con Caselli per presunto plagio delle loro idee (in realtà il pantelegrafo Caselli era molto diverso, infatti funzionava bene a differenza delle loro porcate), ma lasciarono perdere quando scoprirono che l’abate non era un riccone da cui cavare un ingente rimborso. La macchina di Bain del 1843 funzionava da cani e non venne mai commercializzata.

La macchina di Bakewell, una miglioria di quella di Bain (ora si riusciva a inviare del testo scritto “leggibile”, wow!), era una mezza puttanata pure lei rispetto al pantelegrafo di Caselli ed ebbe il suo momento di gloria alla Grande Esibizione di Londra del 1851, ma poi non ottenne alcun successo apprezzabile. Il motivo principale del fallimento di Bakewell era la sincronizzazione pessima che invece nel pantelegrafo di Caselli era perfetta.

Dopo Caselli vennero altri antenati del fax, come il teleautografo di Bernhard Meyer che impiegava un tamburo con il bordo elicoidale (più efficiente della piastra curva, tant’è che andava al doppio della velocità) o quello di Elisha Gray. Le macchine di questo tipo ebbero una certa diffusione solo nell’ambito bancario, per l’invio delle firme, e bisogna aspettare il 1898-1899 per vedere negli USA un interesse verso i “telegrafi universali” per l’invio di immagini da una sede di giornale a un’altra. Nel gennaio 1899 il New York Herald annunciò con orgoglio che l’invio di immagini con la macchina di Hernest Hummel verso il Chicago Herald funzionava perfettamente.

La macchina di Hummel in realtà era meno precisa nel tratto di quella di Caselli, come potete leggere nell’articolo La trasmissione telegrafica dei disegni, ma aveva il vantaggio di essere molto più compatta. Secondo l’articolo di Grassi il telegrafo universali di Caselli era anche più veloce: quello di Hummel aveva impiegato 25 minuti per inviare 29 centimetri quadrati di immagine, mentre quello di Caselli poteva inviare 286 centimetri quadrati in 20 minuti.

Il “fax” di Hummel, 1899, molto più compatto del pantelegrafo Caselli.

Altre due famose invenzioni di Caselli furono il “siluro automatico” (WTF?), di cui però non esiste traccia se non in uno scritto di Innocenzo Golfarelli pubblicato nell’anno della morte di Caselli (1891), e che probabilmente non andò mai oltre lo stadio di semplice idea, e un certo “timone idromagnetico” che pare sia esistito davvero (qualcuno ha notizie?) visto che venne scartato da un certo Ministro della Marina accusato di incompetenza da Golfarelli. Il timone non so come interpretarlo, ma per i siluri immagino che non ci sia nulla di male se in un racconto Steampunk Caselli abbia proprio inventato i moderni siluri (automatici nel senso di autopropulsi, per distinguerli dai siluri e dalle torpedini dell’Ottocento che erano invece “mine navali” immobili?).

Fra le celebrità contemporanee del mondo scientifico, una delle più fulgide ed immacolate fu certo il Prof. Giovanni Caselli nostro illustre collega da crudo morbo rapito in questi giorni alla scienza, ai pochi amici, ai molti ammiratori d’ogni plaga dell’orbe civile.
Discepolo del Nobili, fin da giovine età si dedicò agli studi di fisica e all’insegnamento di essa. Il primo forse a popolarizzare in italia con apposito giornale lo studio della Scienza a Lui prediletta, ebbe la felice idea del Pantelegrafo, che non col fratellevole concorso de’ suoi connazionali, ma con sussidi privati di Napoleone III poté esser tradotto in atto e destare l’universale ammirazione: e alla propria agiatezza, e a maggiori e numerose scoperte e a maggior fortune della sua prima invenzione avrebbe certo potentemente contribuito, se egli avesse accettato la nazionalità francese, che per legge dovea avere, per poter coprire il posto onorifico che gli veniva offerto, e che certamente gli avrebbe aperto la via a maggiori onori, a più brillante avvenire.
Tornato in patria, col sussidio di alcuni buoni amici e specialmente del suo concittadino Com. Prof. A. Vegni poté far eseguire all’Officina Galileo il suo Timone idromagnetico che un incompetente Ministro della Marina italiana seppe far naufragare colla fortuna del suo inventore.
In questi ultimi anni egli avea immaginato un Siluro automatico che è un vero portento dal lato scientifico e per l’applicazione alla marina: ma un generoso suo amico, amico grandissimo della pace fra gli uomini lo sconsigliò dall’attuare e pubblicare questo strumento micidiale, ed egli generosamente acconsenti a privarsi dell’aureola di gloria che esso gli avrebbe procurato. Nella sua gioventù era stato il primo in Firenze e fors’anche in Italia a ripetere la brillante esperienza di Daguerre, ed ora sul declinare della vita, dopoché l’insigne Warley di Londra ebbe pubblicamente dichiarato che il Pantelegrafo Caselli era lo strumento più adatto a trasmettere le fotografie a distanza, studiava le ingegnose modificazioni che poteano farsi al suo apparato per renderlo di uso facilissimo ed esteso, e certamente vi sarebbe riuscito presto, se i mezzi non gli faceano difetto, e se la morte non ce lo avesse rapito. La Società fotografica italiana sentì amaramente il dolore della sua perdita, chè egli era gloria nostra e dell’Italia intera. Unico conforto ne è lo splendore del suo nome, imperituro nei secoli dell’avvenire. Il collega ed amico Prof. Innocenzo Golfarelli.

(Dal «Bullettino della S.F.I.», ottobre-novembre 1891)

Approfondimenti:

  • Don Fax di Nino Gorio su Focus Storia 39. La descrizione in Don Fax è diversa perché sostiene che il ricevente riproduca il negativo dell’immagine… non so se dipenda da un errore grossolano (non aver saputo della messa a terra e di conseguenza aver capito fischi per fiaschi sul ruolo dell’inchiostro isolante) oppure dalla descrizione di una primissima versione del pantelegrafo poi abbandonata. Credo la prima ipotesi: è l’unica che mi pare sensata.
  • HF-FAX, Caselli’s pantélégraphe
  • Adventures in CyberSound: Caselli, Giovanni
  • La trasmissione telegrafica dei disegni di F. Grassi su Natura e Scienza (1899?).

Alessandro Cruto, il genio italiano delle lampadine

Quando si parla di lampadine a incandescenza viene naturale pensare a Thomas Edison, l’inventore americano e squalo del mondo degli affari, più celebre per le molte invenzioni che non per i molti furti di idee o per il debole che aveva nel torturare gli animali con l’elettricità. Quello che molti non sanno è che una fetta della storia della lampadina a incandescenza è italiana, grazie all’innovazione di Alessandro Cruto.

Questa è la parte di articolo meno legata al Risorgimento e anche se tratta un argomento banale, la lampadina, ho voluto dargli una fetta di spazio per sottolineare di nuovo che nello Steampunk c’è posto per l’elettricità e per l’illuminazione elettrica (o il motore a scoppio, come vedremo dopo) in quanto esistevano nel vero XIX secolo e sono presenti anche nella narrativa (fanta)scientifica del periodo. Sembra una precisazione banale, ma l’ignoranza diffusa riguardo la storia della tecnologia la rende necessaria.

Alessandro Cruto, in un disegno del 1883 e in una foto del 1900 circa.

Alessandro Cruto (1847-1908), originario di Piossasco (provincia di Torino), sognava fin da quando era bambino di tramutare il carbone in diamanti. Furono gli studi sulla cristallizzazione del carbonio per produrre diamanti artificiali a portarlo, molti anni dopo, a inventare una lampadina a incandescenza con una durata sufficiente per renderla appetibile al pubblico. L’idea gli venne assistendo a una conferenza del fisico e ingegnere Galileo Ferraris, di cui sfortunatamente vide solo la parte finale, ma fu sufficiente: era dedicata alla storia delle lampade a incandescenza e agli esperimenti con il filo metallico!

Era sul principio dell’anno 1879 aveva letto qualche cosa sui tentativi che faceva Edison per una lampadina a incandescenza a spirale di platino.
In seguito, e più precisamente la sera del 24 maggio stesso anno andai ad assistere a quella delle conferenze che dava allora il professor Galileo Ferraris nel museo industriale italiano.
Una grande folla si piggiava in quella sala, io, per mia disgrazia, arrivai un poco in ritardo, non potei apprendere gran che, ma tuttavia vi appresi la parte storica della lampada ad incandescenza. Storia che risale dal 1845.
Il principio dell’invenzione della lampada ad incandescenza trovandosi nel dominio del pubblico, mi fece pensare all’applicazione delle lamine di carbonio che imparai a fabbricare fin dall’anno 1876.

(Dai diari di Alessandro Cruto)

Il vero problema nella competizione per il primato nell’invenzione della lampadina riguardava la durata: nessun filamento utilizzato durava abbastanza a lungo (o dava luce abbastanza buona) da rendere commercialmente interessante la lampadina al posto dell’illuminazione a gas. Il problema erano le alte temperature: duravano solo poche decine di ore, al più, prima che si distruggesse il filamento. Cruto ebbe l’idea di utilizzare quelle lamine lucenti di carbonio, elastiche come il miglior acciaio, che aveva imparato a produrre nel 1876.

Il 5 marzo 1880, sfruttando il laboratorio di fisica dell’Università di Torino, Cruto accese la prima lampadina col filamento di carbonio (sotto forma di tubicini cavi sottili come capelli) realmente efficiente. Edison nello stesso anno iniziò a produrre industrialmente lampade col filamento a carbone vegetale, ma erano molto inferiori al filamento di carbonio di Cruto. La lampadina al carbone di Edison emetteva una luce giallastra e durava 40 ore. La lampadina di Cruto forniva invece una luce più bianca e durava 500 ore. Una luce costante, limpida e molto meno costosa di quella della concorrenza.

Lampadina Cruto degli anni 1880 con virola “Cruto” e portalampade in legno.
All’epoca c’erano molti tipi di attacchi a virola, inclusa la “Edison” a vite che usiamo ancora oggi per avvitare le comuni lampadine.

Il riconoscimento mondiale arrivò nel 1882, quando Cruto porta le lampadine all’Esposizione di Elettricità di Monaco di Baviera. La sua invenzione suscitò notevole interesse e venne citata negli articoli dei principali giornali mondiali dedicati all’elettricità. Le vie e le case di Piossasco vennero illuminate con la luce elettrica a partire dal 16 maggio 1883, ovvero parecchi mesi prima che la luce elettrica rischiarasse la notte di Place de la Concorde a Parigi, città che ha sempre preteso (evidentemente a torto) di essere stata la prima città illuminata con l’elettricità.

Nel 1882 viene costituita la “Società Alessandro Cruto e Compagnia” per perfezionare e commercializzare l’invenzione. Nel 1885 divenne la “Società Anonima Italiana di Elettricità Sistema Cruto”. Le lampadine Cruto ebbero un notevole successo in giro per il mondo: Svizzera, Francia, Cuba, Stati Uniti ecc… sia prodotte dalla fabbrica italiana di Cruto che prodotte in loco da aziende che avevano comprato il diritto di sfruttare il brevetto. Un notevole successo e motivo d’orgoglio per Alessandro Cruto fu l’aver illuminato le dodici stanze della Mostra d’elettricità all’Esposizione nazionale di Torino del 1884.

Cruto non fu l’unico pioniere italiano della lampadina: Ferdinando Brusotti (1839-1899) brevettò una lampada elettrica a incandescenza con filamento di platino nel 1877 e rinnovò il brevetto (che aveva scadenza annuale) per due volte, poi rinunciò perché gli mancavano i soldi e non riusciva a sostituire il filamento metallico con uno di carbone; Arturo Malignani (1865-1939) diede l’illuminazione elettrica a Udine nel 1888, ma non brevettò la sua lampadina negli USA fino al 1894 (dopo molti anni di migliorie) perché pensava che geni come Edison e simili avessero prodotto qualcosa di molto migliore… si sbagliava: la sua lampadina, grazie al vuoto chimico, durava fino a 800 ore (la migliore al mondo) e nel 1896 Edison ne comprò il brevetto.

Esposizione di Torino nel 1884: illuminazione elettrica di Corso del Re; galleria dell’elettricità; illuminazione del recinto dell’Esposizione.

Approfondimenti:

Il motore a scoppio Barsanti-Matteucci

E ora il secondo elemento Ottocentesco che molti appassionati di Steampunk potrebbero snobbare perché non hanno la consapevolezza della sua anzianità: il motore a scoppio. Non dico che debba esserci il motore a scoppio nelle ambientazioni Steampunk, anzi più motori a vapore ci sono al posto di quelli a scoppio e meglio è, ma se uno vuole metterlo è un elemento pienamente Ottocentesco come anche il motore elettrico (o forse vogliamo escludere dalle fonti letterarie il Nautilus di Verne, 1870, e da quelle storiche il motore elettrico dell’italiano Galileo Ferraris, 1885, e le scoperte di Tesla dello stesso periodo?). Personalmente adoro i motori a vapore per la loro alta efficienza, ma per i veicoli piccoli e compatti come le moto (o gli aerei da combattimento) credo sia più sensato pensare ad alternative meno scomode e ingombranti.

Eugenio Barsanti (1821-1864), nato a Pietrasanta (provincia di Lucca), studiò fin dai sei anni alle scuole degli Scolopi, nel convento di Sant’Agostino, all’epoca molto apprezzate. Finiti gli studi decise di entrare nell’ordine e proseguire gli studi di matematica e fisica. Ebbe contatti con l’Osservatorio Ximeniano, uno dei grandi centri del sapere in Italia, e nel 1841 iniziò e insegnare fisica al collegio San Michele di Volterra. Fu una lezione di fisica che gli diede l’idea per il motore a scoppio…

Barsanti fabbricò per conto proprio una pistola di Volta (che non è l’arma che un pistolero steampunk porta a una sparatoria, a meno di non voler finire morto), ovvero un barattolo metallico riempito di aria e idrogeno e sigillato con un tappo di sughero. Con un barretta di ottone viene poi fatta scoccare una scintilla per incendiare il gas, in modo che aumenti di volume e faccia saltare il tappo. C’era anche chi, cercando di cavar fuori un motore dalla pistola, aveva provato a impiegare delle cariche di polvere da sparo (ma più che una pistola di Volta sarebbe un mortaio con innesco elettrico).

Torniamo a Barsanti. Quando vide il tappo saltare per aria ebbe l’intuizione: un motore in grado di trasformare l’energia del gas incendiato in lavoro meccanico, con un pistone al posto del tappo, per realizzare così un motore più compatto di quello a vapore e più rapido da avviare (il motore a vapore richiede molto tempo per portare in pressione la caldaia, anche parecchie ore nel caso di una grossa locomotiva).

Barsanti si mise al lavoro, dividendosi tra insegnamento, scrittura, studio e attività sacerdotali. La sua salute cagionevole non trasse certo beneficio dai ritmi massacranti che si imponeva per inventare il motore a scoppio. Barsanti, nonostante la buona volontà e le conoscenze di fisica, non era però in grado di completare il lavoro da solo. Quando venne trasferito a Firenze per insegnare meccanica e idraulica trovò la soluzione alle proprie carenze tecniche: nel 1851 conobbe l’ingegnere lucchese Felice Matteucci (1808-1887) che divenne suo amico e compagno d’affari.

Il 5 giugno 1853 i due inviarono un lungo memoriale all’Accademia dei Georgofili, una delle prove più importanti del loro lavoro per il futuro riconoscimento della paternità del motore a scoppio, in cui descrivevano gli obiettivi del loro lavoro e i risultati raggiunti. Sempre nel 1853 realizzarono il primo motore a scoppio, ma quando decisero di brevettarlo in Inghilterra nel 1854 scoprirono che le difficoltà non erano terminate con il primo prototipo: la pratica per ottenere il brevetto era costosa e complessa. Barsanti non aveva né tempo né denaro per seguire le pratiche e nemmeno Matteucci, sempre sull’orlo della depressione e afflitto da problemi di insicurezza e sbalzi d’umore, pareva molto indicato. Barsanti si affidò al signor Haehner, ambasciatore di Sassione a Livorno, che era in grado di mettersi in contatto con le istituzioni britanniche senza le difficoltà dei due italiani.

Il motore esposto nel Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia “Leonardo da Vinci”, lo stesso modello descritto nella richiesta di brevetto del 1854.

La pratica venne rigettata dall’ufficio brevetti. Qualcosa non li convinceva sulla bontà dell’invenzione. Haehner insistette ancora e Barsanti riuscì a ottenere un certificato di protezione provvisoria nel 1854 che successivamente decadde per un mancato pagamento, dato che l’ambasciatore smise di aiutare Barsanti e lui non era in grado di districarsi da solo nel mondo della burocrazia inglese.

Barsanti mandò al diavolo gli inglesi e costituì una società con Matteucci per produrre nel 1856 il suo primo motore, conforme alle specifiche del certificato inglese: bicilindrico ad azione differita con i due cilindri gemelli in azione sullo stesso albero. Aveva una potenza di otto cavalli e veniva impiegato non per la locomozione stradale (i motori Barsanti-Matteucci erano pensati più che altro per le industrie e le navi), ma per dare energia a un maglio meccanico e ad altri strumenti delle officine ferroviarie di Firenze. Era il primo motore a scoppio funzionante della storia.

Con il primo motore a scoppio davvero funzionante finirono i dubbi dei burocrati inglesi e arrivò il brevetto numero 1655 per l’invenzione di un Improved Apparatus For Obtaining Motive Power From Gases, il 12 dicembre 1857. E sempre nel 1857 il nome dei due inventori iniziò a circolare in Italia e nel resto d’Europa. Prima ancora di ricevere il brevetto si aggiunse alla società Barsanti & Matteucci il meccanico di Forlì Giovanni Battista Babacci che assieme a padre Antonelli e padre Cecchi, due scienziati amici di Barsanti, fu responsabile di alcune importanti migliorie.

Babacci era d’accordo con Barsanti e Matteucci sulla necessità di produrre motori bicilindrici perché più adatti per contenere gli effetti dell’esplosione della miscela rispetto al cilindro singolo, ma Babacci ebbe l’intuizione di mettere in comunicazione le camere di scoppio dei due cilindri per poi far passare la scarica elettrica nel canale che le univa. L’idea era ottima. Cecchi la migliorò unendo le due camere di scoppio, in modo che ve ne fosse una sola per i due pistoni contrapposti.

Seguirono sperimentazioni e calcoli a cura di Cecchi e Antonelli che già alla fine del 1857 conclusero le ricerche, giusto in tempo per far tramutare l’idea in un progetto vero a proprio da applicare al battello “Il veloce” della Compagnia di navigazione Lariana di Como. La costruzione del motore, che soffrì una serie di problemi legati allo sfiatamento del gas (si provò a ricoprire gli enormi pistoni col cuoio per sigillare meglio) e alle eccessive dimensioni, fu deludente e la potenza generata insoddisfacente. Probabilmente la colpa fu sia del progetto che della Fonderia Calegari di Livorno che si occupò di realizzarlo, visto che la Benini di Firenze (a cui passarono poi lo stesso progetto alla fine del 1858) ottenne risultati più accettabili.

Il nuovo motore a cilindri contrapposti brevettato nel 1858 in Francia.

Pronti a entrare sul serio nel mercato, i due inventori fondarono nel 1859 la Società anonima del nuovo motore Barsanti e Matteucci. In quello stesso anno Etienne Lenoir sperimentò un motore a gas (metano) a combustione interna e azione diretta, ovvero privo di compressione e funzionante su due fasi: prima avveniva l’aspirazione del gas, l’esplosione e l’espansione e poi avveniva lo scarico. Quando venne presentato nel 1860 fece molto scalpore a Parigi, ma il concetto non era nuovo: già negli scritti di Barsanti e Matteucci del 1853 si ipotizzava un tipo di motore simile, ma venne scartata l’azione diretta a favore di quella differita perché con la seconda il rendimento era maggiore, il motore più economico e il funzionamento meno discontinuo (il motore ad azione diretta soffriva moltissimo la grande violenza delle esplosioni). La prova della corretta intuizione dei due italiani è nell’invenzione stessa di Lenoir: il motore ad azione diretta venne applicato a una “automobile” che dopo aver percorso 18 chilometri si ruppe a causa delle eccessive sollecitazioni.

La Escher-Wyss di Zurigo ricevette il compito di costruire il nuovo motore a pistoni contrapposti e lo inviò a Livorno smontato in 14 casse, giusto in tempo per mostrarlo alla prima Esposizione nazionale di Firenze. Il successo del nuovo motore fu enorme e cominciarono ad arrivare richieste da parte di imprenditori e di aziende, soprattutto agricole. Matteucci, in piena crisi depressiva e incapace di gestire brevetti e richieste, lasciò la società nel 1862. Barsanti prese le redini dell’azienda, ma la sua salute era sempre più compromessa e ormai stava pure diventando cieco. Aveva un sogno, come scrisse a Pio IX in una lettera di richiesta di perdono per eventuali mancanze come sacerdote, quello di alleviare con le macchine le fatiche dei contadini.

Nel 1863 Barsanti progettò un nuovo motore, questa volta a cilindro singolo con pistone e contropistone. La Bauer di Milano lo costruì e confermò che aveva un rendimento altissimo. Il nuovo motore era finalmente in grado di affermarsi sul mercato mondiale e un’azienda belga afferrò l’occasione al volo per produrre in serie il nuovo rivoluzionario motore. L’avventura dei padri del motore a scoppio si concluse nel 1864: appena arrivato in Belgio, Eugenio venne colpito da una grave infezione intestinale e morì il 19 aprile di quell’anno. Il motore non venne prodotto, ma i progetti completi erano ormai in Belgio…

Due anni dopo, nel 1866, Nikolaus Otto ed Eugen Langen (che avevano fondato una ditta assieme proprio nel 1864, caso strano!) brevettarono un nuovo motore a cilindro singolo che era identico a quello di Barsanti se non per poche insignificanti modifiche. Il nuovo motore, proprio come previsto in precedenza dall’azienda belga, fu un enorme successo: ne vennero realizzati ben 3.000 esemplari!

Barsanti e Matteucci nel francobollo commemorativo del 2003.

Nel corso degli anni Barsanti e Matteucci brevettarono i loro motori anche in Piemonte (1857 per il primo, 1858 per i pistoni contrapposti), Francia (1858, pistoni contrapposti), ancora in Inghilterra e Piemonte (1861, modello perfezionato), poi di nuovo in Francia e pure in Belgio (1862, sempre il modello perfezionato) ecc… insomma, le prove della paternità del motore a scoppio tra documenti vari, brevetti e motori realizzati non mancano!

A differenza di altri inventori derubati del giusto riconoscimento storico, Barsanti e Matteucci hanno ormai conquistato il loro meritato posto nella storia della tecnologia (con tanto di replica del loro primo motore esposta al Deutsches Museum di Monaco), a fianco di quel geniale Karl Benz che nel 1878 costruì un motore più efficiente e più adatto per l’uso stradale, ma che non fu il primo motore a scoppio del mondo. Sempre rimanendo nel mondo tedesco anche il Ciclo Otto del 1876, opera del tedesco Nikolaus Otto (quello citato prima), è arrivato dopo gli studi per il motore a quattro tempi pubblicati nel 1862 dal francese Alphonse Beau de Rochas e dopo quelli del 1860 dell’austriaco Christian Reithmann.

Approfondimenti:

L’automa di Innocenzo Manzetti

Tra le meraviglie costruite da Manzetti (1826-1877), inventore di Aosta, ha un posto d’onore l’automa suonatore del 1849. L’automa era di grandezza umana ed era in grado di suonare un flauto muovendo le dita e usando le labbra. La particolarità dell’automa è che non si limitava, come un qualsiasi automa del passato, a mimare di suonare: il flauto lo suonava davvero lui! Le dita si muovevano sui fori mentre le labbra e i colpi di lingua permettevano di dosare l’aria immessa nello strumento. L’automa era fabbricato con acciaio, ferro, pelle di camoscio e gomma (per i tubi). Una maschera di porcellana di solito copriva il volto, di cui ora rimangono ancora gli occhi, sempre di porcellana. Tra tubi, rotelle e altro era formato da più di cinquecento componenti.

L’automa inizialmente poteva suonare dodici arie a scelta e veniva caricato con la chiave, come gli orologi. Successivamente (o almeno così ho letto) la capacità di muoversi venne data da un motore pneumatico, in grado di fornire sia l’aria per suonare che la forza per braccia e volto. Proprio l’utilizzo del motore pneumatico ha fatto entrare l’automa nella storia, tuttora ammirato dagli appassionati di robotica. Successivamente le dodici arie vennero sostituite da un sistema più universale: inserendo un cilindro con la nuova musica, l’automa poteva suonarla!

Venne anche modificato per poterlo collegare alla tastiera di un organo (che veniva così reso muto) in modo che muovesse le dita per suonare secondo gli ordini ricevuti dal musicista. Oltre a suonare l’automa sapeva roteare gli occhi, levarsi il cappello, salutare, pronunciare alcune parole e alzarsi dalla sedia (la sedia conteneva le scorte di aria compressa e da lì partivano i tubi). L’automa migliore che la storia ricordi: si dovette aspettare il 1937 prima che un altro inventore, Dudley, riuscisse a riprodurre un modello di apparato di fonazione umana tanto perfetto!

L’automa suonatore in una foto dell’Ottocento e il volto dell’automa, ora restaurato, sulla copertina di un libro del 2008 dedicato alle invenzioni di Innocenzo Manzetti.

L’automa suonatore riaccese in Manzetti l’interesse per la trasmissione via cavo telegrafico della parola e dei suoni, questione a cui già si era interessato nel 1844. Negli anni successivi continuò a perfezionare l’automa fino a inserirvi nel 1864 un vero e proprio “telegrafo vocale” citato anche nei giornali dell’epoca, come il Corriere di Sardegna del 18 luglio 1865 o questo estratto da un periodico bolognese del 1865:

Altra meraviglia che vince il cavallo di Vienna si è quella del suonatore automa inventato e costruito da signor Manzetti di Aosta. Esso non soltanto si alza, si siede, volge le braccia, muove occhi e membra, apre e chiude la bocca, saluta, ma, mercè un tubo di gomma elastica ripieno di aria compressa, dà persino le pulsazioni del polso. Il meccanismo è così nuovo e bene inteso che lo stesso professor Matteucci ne rimase stupito. Messo in comunicazione con un “armonium” il nostro suonatore di carta pesta alza il suo strumento e con mirabile precisione ripete tutte le suonate con tale grazia, inflessione di voci, e chiaroscuri, da destare in chichessia indefinibile meraviglia. Ma non è tutto; ché il bravo Manzetti che raccomandiamo al Governo per un posto di insegnamento di meccanica, ha trovato il modo di trasmettere per mezzo del telegrafo elettrico i suoni musicali; ed è già a buon punto, specialmente per le parole di suono accentato vibrato di trasmetter da luogo a luogo tutto intero l’umano linguaggio.

(Da “L’uomo automa e il telegrafo musicante” apparso sul periodico bolognese “L’Arpa” del 24 luglio 1865)

Un posto d’onore ben meritato, visto che Manzetti non stette mai molto con le mani in mano:

  • nel 1861 realizzò una macchina idraulica per svuotare le miniere di Ollomont (Aosta) divenuta famosa per la sua compattezza visto che sostituiva il vecchio macchinario (che aveva ruote di 14 metri di diametro) con un attrezzo le cui componenti più grosse erano quattro pistoni alti un metro;
  • nel 1864, sempre per il bene dell’amata Aosta, realizzò un sistema di filtraggio dell’acqua da applicare al torrente Buthier… e visto che gli avanzava tempo costruì pure un’automobile a vapore (parecchi anni prima dei veicoli della Gardner-Serpollet), ma questa non è un gran invenzione visto che gli omnibus a vapore già da tempo erano diffusi a Londra (tanto da essere oggetto della satira del Punch già nel 1831 e di dure leggi repressive contro i veicoli a motore nel 1861 e nel 1865… si fece di tutto per ritardare di decenni, con leggi restrittive, il passaggio dalle carrozze coi cavalli ai veicoli a motore);
  • sempre a Manzetti sono attribuiti pure un automa-pappagallo in legno con caricamento a chiave e in grado di volare per un paio di minuti e, ben più interessante, un pantografo in grado di miniaturizzare così tanto le copie da poter riprodurre un medaglione con l’effige di Papa Pio IX su un chicco di riso;
  • senza contare che, come detto, non si era lasciato sfuggire neppure le sperimentazioni sulla telegrafia vocale (il telefono, su cui tornerò dopo). E molto, molto altro ancora tra idraulica, meccanica, astronomia ed elettricità: insomma, un inventore tuttofare.

Tornando al veicolo a vapore del 1864, c’è anche un giornale di fine ‘800 che ne parla…

Una invenzione valdostana. I giornali di Parigi ci informano che l’ingegner Serpollet ha creato una vettura “phaéton” a vapore. Il veicolo è capace di trasportare da sei a otto persone. Ecco le informazioni che ci vengono fornite sulla macchina che fa muovere la vettura. Il generatore è collocato posteriormente tra due serbatoi di carbone. Il camino è riverso. Il peso totale della vettura è di 1250 chili. La macchina è a due cilindri. La sua forza di quattro cavalli e la sua velocità di 25 chilometri all’ora, ecc… Ci si meraviglia, si porta agli onori l’opera dell’ingegner Serpollet, come una invenzione recente, l’ultima parola del perfezionamento nell’applicazione del vapore come agente di locomotiva e non si sa che in una cittadina sperduta nelle pieghe delle Alpi, un geometra umile, sconosciuto e ignorato ha fatto correre una prima vettura a vapore 25 o 30 anni prima di quella dell’inventore parigino? Questa città è Aosta, il creatore sconosciuto è Innocenzo Manzetti. Noi stessi abbiamo visto il veicolo a vapore creato dall’inventore del telefono. L’abbiamo visto nel 1864 percorrere la strada dei Capucins e il cammino lungo le mura romane. Era una specie di furgone. La macchina precedeva la panchetta dove due persone si trovavano comodamente sedute. Il camino era alto e sebbene situato di fronte ai viaggiatori non li scomodava affatto. Il vapore si proiettava in un pistone situato sotto la caldaia; il pistone faceva muovere la biella in comunicazione con le ruote anteriori e la vettura si muoveva. Era semplice, era primitiva, ma l’idea era conosciuta, è andata avanti, si è perfezionata nell’atelier dell’ingegner Serpollet, che ora si prende tutto il merito. Perché Manzetti non ha sollecitato il brevetto d’invenzione? Mistero! Si sa, ha lasciato seppellire con lui il segreto del suo automa che gli sarebbe stato sufficiente per essere rinomato eternamente.

(Da “Le Valdôtain” di Aosta, 6 marzo 1891)

…ma, fortunatamente, l’automa ha mantenuta viva la fama di Manzetti fino ad oggi tra gli appassionati di robotica e di storia della tecnologia (e in più c’è la questione del telefono che vedremo tra poco).

Innocenzo Manzetti nel 1867

Anche l’Italia ebbe il suo piccolo Edison, ma senza i furti di idee e senza i capitali del piranha americano perché Manzetti, sfortunatamente, non sapeva fare soldi con le sue invenzioni. L’essere di famiglia poverissima e il modesto lavoro di geometra non favorivano per nulla le sue possibilità di imporsi nel mondo internazionale delle invenzioni, fatto di avvocati, lotte in tribunale e costosi brevetti da depositare in ogni stato di interesse.

Le opere di Manzetti attirarono sempre l’attenzione di molti estimatori, interessati spesso anche al loro acquisto. Manzetti però non era dotato di un grande senso degli affari. Non solo egli creava marchingegni perlopiù per diletto o per amore di scienza, ma pure quando li produceva per venderli non ne traeva mai un gran guadagno. Così, ad esempio, la macchina per la pasta (la classica tirapasta a manovella usata per tutto il Novecento, brevettata nel 1857 – immagino nel solo Regno di Sardegna) la vendette ad una fabbrica inglese per una somma irrisoria!

Il telefono di Bell e Meucci

Cosa sia il telefono, a differenza del “pantelegrafo”, lo sanno tutti quindi mi limiterò a fornire pochi dati, più per desiderio di diffondere e riabilitare il nome del più grande inventore italiano del periodo, messo troppo spesso da parte a favore di Meucci, che per altri motivi. “Meucci ha inventato il telefono”, questo è ciò che si dice in Italia. La situazione, in realtà, è un pochino più complessa, così complessa che vi si potrebbe dedicare un intero sito (l’equivalente di un libro come quantità di testo scritto) e non basta certo un misero articolo per parlarne in modo esaustivo, figurarsi quindi una porzione secondaria di un articolo dedicato ad altro! Voglio però sintetizzare la questione Bell-Meucci per introdurre al meglio il primo inventore del telefono, Manzetti.

Alexander Graham Bell e Antonio Meucci:
il primo era un riccastro senza scrupoli, il secondo un poveraccio un po’ ingenuo.

Prima di tutto chiariamo che per decenni molti inventori si sono dedicate alla trasmissione a distanza della voce sfruttando l’elettricità in sostituzione della semplice vibrazione. Non c’è da stupirsi quindi che più persone, in anni ravvicinati, siano arrivate a inventare il telefono elettrico. Bell, Meucci ecc… non erano pochi geni (oddio, proprio genio Meucci non lo era, come vedremo) in un mondo di fessi: c’erano centinaia di inventori impegnati nella questione. Loro sono arrivati prima di altri a una soluzione decente, ecco tutto.

Il telefono “meccanico”, non elettrico, funzionante con la trasmissione delle vibrazioni lungo un filo, era già noto da molti secoli. Avete presente le due lattine con il filo che le unisce? Se realizzato correttamente, con i fili asciutti infilati in buchi stretti dentro lattine/coni di forma omogenea (cilindri o coni perfetti, non stramberie asimmettriche), funziona su brevi distanze e veniva usato anche dai cinesi. Quando il filo è ben teso e qualcuno parla in una delle lattine, il suo fondo agisce come un diaframma che converte le onde sonore in vibrazioni meccaniche che variano la tensione del filo. Il suono, divenuto vibrazione meccanica, si trasmette sotto forma di onde nel filo fino all’altra lattina e ne fa vibrare il fondo in modo tale da ricreare il suono! Gli inglesi li chiamano “lover’s phone” e li conoscevano già nel ‘600, anche se l’uso di simili attrezzi si limitava al comunicare, lungo condotti nei muri, da un piano a un altro (la qualità del suono degrada molto rapidamente col filo… nelle navi, o anche in alcuni uffici di primo ‘900 o al posto dei moderni citofoni nell’800, si usavano invece dei tubi acustici per trasmettere la voce). Questa precisazione su lattine e tubi acustici servirà per capire la questione Meucci a cui arriverò tra poco.

I have, by the help of a distended wire, propagated the sound to a very considerable distance in an instant.

(Dalla prefazione di Micrographia di Robert Hooke, 1665)

Meucci era un immigrato italiano negli Stati Uniti. Era povero, poverissimo, e cercava di sopravvivere con le sue opere di ingegno. Per parecchi anni si era interessato alla trasmissione a distanza della voce, fin dai tempi in cui aveva installato, nel 1834, un sistema di tubi per comunicare (trasmissione meccanica del suono) al Teatro della Pergola di Firenze. Nel 1854 pare che avesse realizzato un telefono per comunicare dall’ufficio/laboratorio con la moglie invalida nella camera da letto. Questo telefono era però anche lui, con ogni probabilità, di natura meccanica (tubi) e non elettromagnetica dato si dice fosse stato ispirato all’esperienza del Teatro della Pergola e, ancora più importanti, nove anni dopo Meucci ancora non riusciva a trasmettere parole decentemente con un telefono elettromagnetico.
Secondo altre fonti, però, il telefono (o, come lo chiamava lui, telettrofono) era invece davvero basato sull’uso dell’elettricità:

Consiste in un diaframma vibrante e in un magnete elettrizzato da un filo a spirale che lo avvolge. Vibrando, il diaframma altera la corrente del magnete. Queste alterazioni di corrente, trasmesse all’altro capo del filo, imprimono analoghe vibrazioni al diaframma ricevente e riproducono la parola.

(Note che Meucci affermava di aver scritto nel 1857, giurin giurello)

La cosa pare strana visto che nel 1865, quando seppe del telefono inventato da Manzetti, Meucci stava ancora giocando con strumenti sperimentali in cui bisognava tenere una lamella/spatola in bocca (con l’enorme difficoltà di emettere suoni chiari che potete immaginare) per fare in modo che le vibrazioni arrivassero all’apparecchio. O magari il modello del 1854 aveva un suono molto cattivo, anche se il design era moderno. Chissà. Anche qui le prove non sono chiare, nonostante certe affermazioni dei sostenitori più incalliti di Meucci: senza la lamella di rame dentro la bocca, si trasmetteva in modo chiaro la voce o no? A quanto ho capito “NO” e lo conferma il primo esperimento di Meucci del 1849.

Una bella descrizione del primo esperimento di trasmissione della voce fatto da Meucci si trova nel PDF Antonio Meucci, l’inventore del telefono di Basilio Catania:

Meucci pensò di sperimentare, nei medesimi locali [dove argentava elettricamente materiale militare per il Governatore di Cuba], l’elettroterapia, allora di grande attualità, grazie anche agli studi e alle teorie sull’elettricità e sul magnetismo animale dell’abate Pierre Bertholon e del medico austriaco Franz Anton Mesmer.

Meucci faceva accomodare il paziente in una stanza del suo piccolo appartamento, mettendogli in mano due spatole costituite da una linguetta di rame e da una impugnatura isolante in sughero, quindi si posizionava nel locale batterie (uno dei locali delle attrezzerie del teatro), facendo passare i fili – di rame isolato – attraverso il proprio appartamento e attraverso il cortile, come mostrato in figura.
Il filo veniva svolto da un rotolo, per portarlo alla lunghezza desiderata. Meucci teneva in mano una spatola simile a quelle usate dal paziente, allo scopo di inserirsi in serie ad esso, di quando in quando, così da valutare l’intensità della scossa e variare il numero di elementi di batteria da usare e, nello stesso tempo, da verificare quanto si andava dicendo a quei tempi, e cioè che così si poteva capire “dove fosse la malattia” del paziente.

Poiché quest’ultimo sembrava affetto da reumatismi alla nuca, Meucci gli ordinò di mettere una delle spatole in bocca, tenendola in mano dalla parte del sughero, e di stringere l’altra spatola, con l’altra mano, dalla parte del rame: in tal modo la corrente avrebbe attraversato il corpo del paziente passandogli attraverso la nuca. Avvenne che il paziente gridò per la scossa ricevuta, anche in relazione alla forte tensione inizialmente utilizzata da Meucci (60 batterie Bunsen in serie, per un totale
di circa 114 V). Meucci udì distintamente il grido come provenisse dalla linguetta metallica del suo strumento, strumento che, data la sua postura – come mostrato in figura 2 – si trovava vicino al suo orecchio sinistro.

Figura 2 tratta dall’articolo di Basilio Catania:
schema dell’esperimento del 1849 e postura di Meucci nel locale batterie.

Era evidente – e Meucci lo capì immediatamente – che la sua linguetta gli trasmetteva il suono, vibrando come fosse la foglia di un elettroscopio, cioè grazie a un effetto elettrostatico (potenziato dall’elevato valore della tensione impiegata).
Ricoprì perciò i due strumenti, il suo e quello del paziente, con un cono di cartone, eliminando il secondo strumento in mano al paziente, e ordinò allo stesso di parlarci dentro. Ma stavolta il risultato fu peggiore del precedente.

Infatti, Meucci lavorava ora con due rudimentali telefoni elettrostatici, mentre nel precedente esperimento la spatola in bocca del paziente provocava con la saliva nella sua cavità orale una resistenza variabile, che oggi sappiamo essere molto più efficace della trasduzione elettrostatica1. Comunque, come ebbe a dichiarare lo stesso Meucci: “Da questo momento fu la mia immaginazione e riconobbi che avevo ottenuto la trasmissione della parola umana per mezzo di filo conduttore unito con diverse batterie per produrre l’elettricità, a cui diedi il nome immediatamente di telegrafo parlante”.

Scoprì il “telefono” mentre cercava di curare i reumatismi di un poveraccio con l’elettroshock! LOL! ^__^

Il 12 dicembre 1871 Meucci fondò la Telettrofono Company con Angelo Zilio Grandi (Segretario al Consolato Italiano di New York) e due altri imprenditori italiani. Lo scopo della società era di dare 20$ a Meucci per registrare un caveat (10$ per il caveat in sé e 10$ per l’avvocato), ovvero una sorta di “prenotazione di brevetto” da rinnovare di anno in anno (al costo di 10$). Il caveat serve a proteggere un’invenzione che si sta per completare, e di cui quindi non si può ancora produrre una descrizione esatta nei minimi particolari, fino a quando non la si finisce e si registra il brevetto definitivo (da 35$ o più, in base all’invenzione) presentando progetti completi che permettano di realizzare un apparecchio funzionante.

L’altro ruolo di un caveat, nel caso di un’invenzione già completa e brevettabile, è quello di risparmiare soldi: nel caso del brevetto desiderato da Meucci per il telettrofono il costo completo sarebbe stato di 250$ (equivalenti a circa 5000$ attuali, che non aveva), mentre col caveat poteva spendere meno di un decimo della cifra e venire avvisato nel caso qualcuno avesse presentato un brevetto simile al suo per poter così trovare degli investitori (l’interesse di altri inventori che a loro volta hanno degli investitori è un ottimo modo per attirare soldi), racimolare i soldi e registrare il proprio brevetto (entro 90 giorni dall’avviso) con cui scavalcare il nuovo arrivato.

Qui trovate le parti interessanti del caveat depositato il 28 dicembre 1871 per un “Sound Telegraph”:

The petition of Antonio Meucci, of Clifton, in the County of Richmond and State of New York, respectfully represents:
That he has made certain improvements in Sound Telegraphs, …

The following is a description of the invention, sufficiently in detail for the purposes of this caveat.

I employ the well-known conducting effect of continuous metallic conductors as a medium for sound, and increases the effect by electrically insulating both the conductor and the parties who are communicating. It forms a Speaking Telegraph, without the necessity for any hollow tube.
I claim that a portion or the whole of the effect may also be realized by a corresponding arrangement with a metallic tube. I believe that some metals will serve better than others, but propose to try all kinds of metals.

The system on which I propose to operate and calculate consists in isolating two persons, separated at considerable distance from each other, by placing them upon glass insulators; employing glass, for example, at the foot of the chair or bench on which each sits, and putting them in communication by means of a telegraph wire.

I believe it preferable to have the wire of larger area than that ordinarily employed in the electric telegraph, but will experiment on this. Each of these persons holds to his mouth an instrument analogous to a speaking trumpet, in which the word may easily be pronounced, and the sound concentrated upon the wire. Another instrument is also applied to the ears, in order to receive the voice of the opposite party.

All these, to wit, the mouth utensil and the ear instruments, communicate to the wire at a short distance from the persons. The ear utensils being of a convex form, like a clock glass, enclose the whole exterior part of the ear, and make it easy and comfortable for the operator. The object is to bring distinctly to the hearing the word of the person at the opposite end of the telegraph.

To call attention, the party at the other end of the line may be warned by an electric telegraph signal, or a series of them. The apparatus for this purpose, and the skill in operating it, need be much less than for the ordinary telegraphing.
When my sound telegraph is in operation, the parties should remain alone in their respective rooms, and every practicable precaution should be taken to have the surroundings perfectly quiet. The closed mouth utensil or trumpet, and the enclosing the persons also in a room alone, both tend to prevent undue publicity to the communication.

I think it will be easy, by these means, to prevent the communication being understood by any but the proper persons.
It may be found practicable to work with the person sending the message insulated, and with the person receiving it, in the free electrical communication with the ground. Or these conditions may possibly be reversed and still operate with some success.
Both the conductors or utensils for mouth and ears should be, in fact I must say must be, metallic, and be so conditioned as to be good conductors of electricity.
I claim as my invention, and desire to have considered as such, for all the purposes of this Caveat,
The new invention herein set forth in all its details, combinations, and sub-combinations.

And more especially, I claim
First. A continuous sound conductor electrically insulated.
Second. The same adapted for telegraphing by sound or for conversation between distant parties electrically insulated.
Third. The employment of a sound conductor, which is also an electrical conductor, as a means of communication by sound between distant points.
Fourth. The same in combination with provisions for electrically insulating the sending and receiving parties.
Fifth. The mouthpiece or speaking utensil in combination with an electrically insulating conductor.
Sixth. The ear utensils or receiving vessels adapted to apply upon the ears in conbination with an electrically insulating sound conductor.
Seventh. The entire system, comprising the electrical and sound conductor, insulated and furnished with a mouthpiece and ear pieces at each end, adapted to serve as specified.

In testimony whereof, I have hereunto set my hand in presence of two subscribing witnesses.
ANTONIO MEUCCI

Witnesses:
Shirley McAndrew.
Fred’k Harper.

Endorsed:
Patent Office
Dec. 28, 1871

Qual è il problema di questo caveat? Che è troppo incompleto. È vero, conoscendo gli studi di Meucci ecc… è ovvio che si riferisca a un telefono che converte il suono in elettricità e poi l’elettricità di nuovo in suono, ma NON è scritto in modo chiaro. Non esplicita l’ovvio. Prendendo solo quello che c’è scritto, senza aggiungere nulla di più, c’è solo la blanda descrizione di un telefono con le lattine abbinato a strambi riferimenti al dover isolare elettricamente la cornetta o perfino chi sta parlando. Non spiega nemmeno perché i conduttori per orecchie e bocca debbano essere metallici. Questi sono i fatti. Un giudice in malafede, con l’aiuto di prove poche chiare e di qualche piccola stupidata detta da Meucci (come poi accadrà), potrebbe benissimo dire che non è un telefono elettromagnetico.

Il telefono del tedesco Philipp Reis, che lo presentò nel 1862 a Wilhelm von Legat, Ispettore del Reale Corpo Telegrafico Prussiano. Sfortunatamente trasmetteva solo musica, mentre la voce risultava incomprensibile.

Il fatto che il caveat fosse incompleto dal punto di vista descrittivo fa anche pensare che NON fosse solo una questione di soldi (250$ contro 10$) ad aver impedito la registrazione di un vero brevetto: il suo telefono, con ogni probabilità, non era del tutto completo. L’alternativa, per giustificare il darsi la zappa sui piedi descrivendo apposta in modo inadeguato il telettrofono, è che Meucci fosse deficiente un po’ ingenuo e superficiale. Telefono incompleto o Meucci fesso? Almeno una delle due è per forza di cose vera, scegliete voi cosa preferite credere. ^_^

La Telettrofono Company si sciolse nel giro di un anno. Fino al 1874 Meucci continuò a racimolare i 10$ necessari al rinnovo e poi, secondo le fonti patriottiche più romantiche, non trovò più nemmeno quei soldi a causa delle sue condizioni di estrema indigenza. Ma è la verità? Davvero lui viveva nel sogno di trovare 10$ per rinnovare il suo caveat e solo un crudele e avverso destino gli impedì sempre di trovarli?
La Realtà Storica ci dice qualcosa di diverso.

Queste sono i brevetti e i caveat registrati da Meucci tra 1871 e 1876:

  • 1871 US Patent No. 122,478 “Effervescent Drinks,” fruit-vitamin rich drinks that Meucci found useful during his recovery from the wounds and burns caused by the explosion of the Westfield ferry.
  • 1871 Filed a caveat for a telephone device in December
  • 1873 US Patent No. 142,071 “Sauce for Food.” According to Roberto Merloni, general manager of the Italian STAR company, this Patent anticipates modern food technologies.
  • 1873 Conception of a screw steamer suitable for navigation in canals.
  • 1874 Process for refining crude oil (caveat).
  • 1875 Filter for tea or coffee, much similar to that used in present day coffee machines.
  • 1875 Household utensil (description not available) “combining usefulness to cheapness, that will find a ready sale.”
  • 1875 US Patent No. 168,273 “Lactometer,” for chemically detecting adulterations of milk. It anticipates by fifteen years the well-known Babcock test.
  • 1875 Upon request by Giuseppe Tagliabue (a Physical Instruments maker of Brooklyn, NY), Meucci devises and manufactures several aneroid barometers of various shapes.
  • 1875 Meucci decided not to renew his telephone caveat, thus enabling Bell to get a patent.
  • 1876 US Patent No. 183,062 “Hygrometer,” which was a marked improvement over the popular hair-hygrometer of the time. He set up a small factory in Staten Island for fabrication of the same.

Trovate la lista completa e anche l’accesso ai testi dei brevetti su wikipedia.

Nel 1875 e nel 1876 Meucci registrò due brevetti del costo di almeno 35$ l’uno! Ma come, aveva i soldi per quei brevetti e non aveva i soldi per rinnovare il caveat? Non è che la propaganda italiota per non mostrare alcun lato negativo di Meucci, rendendolo martire e santo, ha scelto di tacere sul fatto che LUI non avesse rinnovato il caveat perché preferiva usare i soldi per ALTRI brevetti? Un Meucci che non crede granché nel telefono sarebbe molto meno eroico e romantico, non trovate?

C’era un motivo per cui Meucci smise di spendere 10$ all’anno: era deluso e disilluso, fino al punto di abbandonare le speranze per il suo telefono. Cosa accadde? Nel 1872, appena morta la Telettrofono Company, Meucci si rivolse ad Edward Grant, Vice Presidente dell’American District Telegraph Company di New York, e ottenne la promessa di poter effettuare prove sul campo sfruttando le linee telegrafiche dell’azienda. Gli consegnò disegni e documentazioni complete del telettrofono, per permettere la valutazione e la preparazione delle prove. ERRORE!
Nei due anni successivi Grant continuò a tergiversare e a inventare scuse per non far effettuare le (fondamentali) prove a Meucci. Nel 1874 Meucci chiese indietro i documenti e i disegni completi del telettrofono e, guarda un po’, Grant rispose di averli smarriti!

Meucci avrebbe dovuto intuire la trappola (se trappola c’è stata, non saprei dirlo, ma la vicenda è molto sospetta) in quei continui ritardi e nella scomparsa del materiale affidato, ma non aveva la mentalità da squalo affarista: Meucci era un bravuomo un po’ troppo ingenuo per il mondo delle truffe e dei furti di idee tipicamente americano, tanto da non sospettare fin da subito che qualcosa non andava e finire con lo smettere di rinnovare il caveat!

[A Meucci] fu sempre difficile entrare nella “mentalità inglese” (o meglio “newyorchese”, riferita alla New York dell’Ottocento), specie nel campo degli affari, in quanto la totale mancanza di scrupoli e la disinvoltura nella condotta degli affari e nell’eliminazione della concorrenza, tipici dei businessmen nordamericani, non erano affatto congeniali alla sua indole e alla sua educazione.

(Basilio Catania in Antonio Meucci, l’inventore del telefono)

Alexander Graham Bell mentre usa il telefono a New York.
Se c’era giustizia i soldi che ha guadagnato dovevano finire tutti in medicine!

Nel 1876, due anni dopo lo strano “smarrimento”, Alexander Graham Bell brevettò il telefono! A differenza di Meucci, il giovane Bell aveva avvocati a volontà e le mani in pasta nel mondo degli affari per lanciare il prodotto con successo. La vicenda del telefono di Bell si lega anche a uno strano caso di brevetti, avvocati e (forse) scopiazzamenti a danno di Elisha Gray, che per poche ore di distanza (nonostante avesse consegnato la richiesta prima di Bell, che però mandò gli avvocati a costringere l’addetto e leggere subito la sua) si trovò a non brevettare il telefono. Ci sono poi ulteriori dettagli, e teorie, che portano all’abbandono da parte di Gray del caveat sul telefono. Non mi dilungo sulla questione Gray-Bell perché è del tutto scollegata con Meucci e Manzetti: la trovate su wikipedia.

Meucci affrontò Bell, ma alla fine (nel 1887) perse. I dettagli della vicenda li potete trovare su wikipedia, in un’orgia di libri dedicati al telefono, e nel PDF di Basilio Catania indicato prima. Qualche piccolo dettaglio: il giudice Wallace era un razzista anti-italiano, approfittò del caveat scritto male e di alcuni passi falsi di Meucci (ad esempio aver citato, come esempio del suo impegno nell’ambito telefonico, l’impianto a tubi per il teatro del 1834), oltre a ignorare tutte le testimonianze più importanti a favore di Meucci e gli articoli riguardo le sue invenzioni in cui era EVIDENTE che si parlava di un telefono elettromagnetico. Contro l’orda di avvocati di Bell, che aveva soldi a volontà, Meucci poté contrapporre solo un amico avvocato che lavorava gratis. Il Regno d’Italia, nonostante appoggiasse il patriota amico di Garibaldi come unico e vero inventore del telefono, non scucì mezza lira per aiutarlo: il martire italiano della crudeltà straniera, e per di più “gratis”, forse faceva comodo per rinvigorire lo spirito nazionale.

Il giudice Wallace fece tutto quello che poteva per affermare che uno sporco italiano subumano non poteva aver inventato qualcosa di così Eccellente e di conseguenza Ariano e Americano come il telefono moderno. La sentenza del caso Meucci-Bell è considerato uno dei più vergognosi soprusi della storia giudiziaria statunitense. In realtà non si competeva tanto per il brevetto (essendo il caveat scaduto senza rinnovo), ma per assicurare al povero italiano quella cifra, inferiore, che la legge americana garantiva agli inventori di qualcosa di successo anche se non erano mai riusciti a brevettarlo per sfortuna o povertà. Una legge fatta per difendere i più deboli, come nel caso di Meucci, completamente bypassata dal giudice con la questione del “telefono meccanico”. Meucci morì povero e sconfitto nel 1889. Nel 2002 il Congresso degli Stati Uniti dichiarò che se Meucci avesse avuto i soldi per rinnovare il caveat, Bell non avrebbe potuto registrare il suo brevetto, di conseguenza il contributo di Meucci nell’invenzione del telefono deve essere riconosciuto. Il caso di Meucci diventa però irrilevante se teniamo conto di Manzetti.

Il telefono di Manzetti

Gli esperimenti di Manzetti sulla trasmissione di voce e suoni cominciarono nel 1844. Al 1849 risalgono le prime annotazioni di Manzetti in materia e al 1850 una serie di scherzi fatti agli amici assieme al fratello, usando un telefono meccanico (un sistema con la vibrazione della cordicella come nel telefono con le lattine) che permetteva a un burattino con sopra un teschio di parlare. Successivamente Manzetti scoprì l’importanza dell’elettricità per la trasmissioni dei suoni. Vivendo in un ambiente estremamente isolato dal resto d’Europa e avendo studiato solo come geometra, Manzetti non era a conoscenza di tante cose “note agli scienziati” e che finì per scoprire da solo… come ad esempio l’induzione elettromagnetica. Dopo gli esperimenti con l’elettromagnetismo, imparando da solo ciò che altri avevano studiato, iniziò a costruire il suo primo, vero, telefono elettrico. Già nel 1861, racconta il fratello, riuscì a trasmettere un discorso e un brano musicale a due chilometri di distanza.

La casa di Innocenzo Manzetti.

Nel 1863 o 1864, mi fece parte dell’idea che aveva di trasmettere la parola parlata per mezzo del telegrafo. Mi ricordo allora di avergli detto qualche parola di sfiducia e di aver aggiunto il rimprovero che gli rivolgevo sovente, di voler iniziare molte cose e di non portare nulla a termine. “Ebbene! Vedrai se non ci riesco” mi disse. Nel 1864, mi fece vedere un prototipo di una macchina per trasmettere i suoni attraverso il telegrafo. “Quando riuscirai con la tua macchina a farmi sentire un suono qualunque ad una certa distanza, mi premurerò di parlarne nei giornali”. All’epoca ero redattore di alcuni giornali della Valle d’Aosta: “L’Indépendant” e la “Feuille d’Aoste”. Prima dell’anno 1865 Manzetti ottenne ciò che mi aveva promesso, cioè di trasmettere con l’elettricità la parola a distanza. Mi venne a cercare in casa e mi disse: “Vieni a vedere, Tommaso, non hai visto, ma vieni a toccare con dito”

(Da un lettera di data incerta del canonico Edouard Bérard, amico di Manzetti)

Come visto prima il telefono (telegrafo vocale, nella definizione di Manzetti) venne applicato all’automa per trasmettere voce e suoni. Il nuovo strumento divenne subito famoso e i giornali in giro per il mondo gli dedicarono vari articoli nel 1865. La notizia arrivò fino a Meucci, tanto che una delle sue lettere sulla questione è considerata una prova del fatto che quando il telefono di Manzetti già funzionava con la cornetta, quello di Meucci era ancora in alto mare (o, meglio, con la lamella in bocca!).

A parte l’articolo L’uomo automa e il telegrafo musicante apparso sul periodico bolognese “L’Arpa”, nel numero del 24 luglio 1865, ci furono altri articoli, ad esempio su “L’Italia Contemporanea” di Firenze (10 agosto 1865), su “Rossini” di Napoli (20 agosto 1865), su “Il Commercio d’Italia” di Genova (1 dicembre 1865) e sul periodico novarese “La Verità” (4 gennaio 1866).

Il settimanale “Feuille d’Aoste” del 22 agosto 1865 cita una possibile applicazione del sistema di Manzetti in Inghilterra, ma della visita dei meccanici inglesi non pare esistano vere prove (ci sono però prove, e voci credibili, di altre visite ben più interessanti che vedremo dopo):

Il signor Manzetti e il telegrafo. Alcuni meccanici inglesi, ai quali il signor Manzetti ha recentemente svelato il suo segreto per trasmettere la parola per mezzo del filo telegrafico, si propongono di applicare questa invenzione ai telegrafi privati, l’uso dei quali è molto diffuso in Inghilterra. A Londra, per esempio, ci sono alberghi dove il servizio è diretto per mezzo del telegrafo. Con la scoperta del signor Manzetti, questo servizio si farà più facilmente e più prontamente. Noi non dubitiamo che un giorno questo ingegnoso procedimento sarà applicato alle grandi linee telegrafiche e che l’ufficio dell’ufficiale del telegrafo diventerà una sala di conversazione. Sia questo giorno più o meno lontano, non è meno vero l’affermare che il nome del nostro compatriota merita fin da oggi di essere annoverato nella serie di uomini che hanno fatto progredire, in questo secolo, le arti e l’industria. Lo sarà senza dubbio, ma noi lo diciamo con amaro rincrescimento, questa sarà probabilmente la sola ricompensa riservata al signor Manzetti. Non sarebbe stato probabilmente così se il signor Manzetti fosse stato in altri paesi, dove i titoli di ministro della pubblica istruzione, di ministro dell’agricoltura, del commercio, delle arti e dell’industria, non sono vani e menzogneri come in Italia, ma significano incoraggiamento e vera protezione della scienza e delle arti.

La notizia fece il giro del mondo e arrivo alla fine anche su l'”Eco d’Italia” (giornale in lingua italiana pubblicato a New York) che ripropose un articolo tratto dal “Diritto” di Firenze. L’articolo interessò molto Meucci che iniziò un importante scambio di lettere con Bendelari, il responsabile dell’arrivo del caso Manzetti sull'”Eco d’Italia”. Meucci inviò una lettera anche a Ignazio Corbellini, direttore de “Il Commercio di Genova”, che riporto qui sotto (il grassetto sulla parte più importante è mio):

Signor Ignazio Corbellini,
Arenzano (Genova)

Nell'”Eco d’Italia” del 19 agosto p.p. ho letto di un nuovo scoprimento che riguarda una delle mie antiche; ve lo accludo acciò lo possiate esaminare. Io sono stato uno dei primi che ha lavorato con tutta l’assiduità nell’arte dell’Elettricità come per il Galvanismo all’epoca della sua prima scoperta; allora mi trovavo all’Avana. Abbandonato questo ramo per le enormi spese, mi dedicai quando venni agli Stati Uniti ad altri rami, però non l’abbandonai, anzi di quando in quando facevo qualche saggio di questa bella scoperta, e per mezzo di qualche piccolo esperimento arrivai a scoprire che un istrumento posto all’udito e coll’aiuto dell’Elettricità e del filo metallico si poteva trasmettere la parola esatta tenendo in bocca e stringendo il conduttore fra i denti, ed a qualunque distanza due persone potevano mettersi in comunicazione diretta tra loro senza necessità di dovere comunicare ad altri i propri segreti. Ma stante le mie troppe occupazioni, lo abbandonai coll’idea di comunicarlo a qualche intelligente compatriota acciò nella nostra bella Italia fossero fatti i primi esperimenti. Nell’anno 1860 il mio amico sig. Bendelari partendo per l’Italia ed offrendomi i suoi servigi, gli comunicai la mia scoperta, che ho creduto sempre molto utile, riserbandomi di dargli più ampli schiarimenti quando fosse ritornato a vedermi, ciò che non poté fare stante le sue molte occupazioni, così non vedendolo più, tutto rimase in oblìo. Come vi ho detto più sopra trovai l’articolo, qui accluso, nell'”Eco d’Italia”, ed ho voluto, e voglio giustificare che io avevo fatta questa scoperta, e che per essere identica a quella del sig. Manzetti, ho creduto che il sig. Bendelari avesse fatto palese a qualcuno ciò che gli avevo comunicato verbalmente. Scrissi allora al detto sig. Bendelari in proposito, e mi rispose, le quali copie vi rimetto. Io non posso negare al sig. Manzetti la sua invenzione, ma soltanto voglio far osservare che possono trovarsi due pensieri che abbiano la stessa scoperta, e che unendo le due idee si potrebbe più facilmente arrivare alla certezza di una cosa così importante. Se mai per combinazione vi trovaste col detto sig. Manzetti o con qualche suo amico, vi prego di comunicargli quanto vi ho detto e ve ne anticipo i miei ringraziamenti. (…)

A. MEUCCI

La notizia arrivò anche a Parigi, grazie ad un articolo di Emile Quétand (avvocato della Corte Imperiale parigina) apparso sulle pagine del “Petit Journal” del 22 novembre 1865. Riporto il testo tradotto fornito sul sito che il Centro Studi de Tillier ha dedicato a Innocenzo Manzetti:

Curiosità dalla Scienza. Scoperta della trasmissione del suono e della parole per mezzo del telegrafo.
Una nuova scoperta che darà degli importanti sviluppi per gli usi che se ne potranno fare nelle arti e nell’industria, viene ancora ad aumentare le meraviglie di questo secolo; è la trasmissione dei suoni e delle parole per mezzo del telegrafo. L’autore di questa scoperta è il signor Innocenzo Manzetti di Aosta, inventore di un celeberrimo automa… Il signor Manzetti trasmette la parola per mezzo del filo telegrafico, con un apparecchio più semplice di quello oggi utilizzato per i dispacci telegrafici. Oramai due negozianti potranno trattare i loro affari istantaneamente da Londra a Calcutta, informarsi reciprocamente delle loro speculazioni; proporle, combinarle. Parecchie sperimentazioni sono state già eseguite e, grazie alla loro riuscita, confermano la possibilità di mettere in pratica su vasta scala tale scoperta. Si trasmette perfettamente la musica; quanto alle parole, quelle sonore si sentono distintamente….”

Insomma, mi pare chiaro che fosse un VERO telefono e che funzionasse perfettamente, tanto da attirare l’interesse del mondo intero.
Lo stesso Meucci quando scrisse

“Io non posso negare al sig. Manzetti la sua invenzione […] e unendo le due idee si potrebbe più facilmente arrivare alla certezza di una cosa così importante”

lasciava intendere che il suo apparecchio non era allo stesso livello di quello di Manzetti. Se Meucci avesse avuto già un telefono funzionante, senza la lamella in bocca, non avrebbe sentito il bisogno di unire il suo ingegno a quello di Manzetti per produrre un vero telefono elettromagnetico. In più, come abbiamo visto, ci vollero altri sei anni (1871) prima che Meucci rendesse pubblico per la prima volta il suo telettrofono con quella descrizione incompleta presente nel caveat.
La descrizione del telefono di Manzetti invece denotava uno strumento già completo e funzionante nel 1865.

Dopo la morte di Manzetti (1877) fu rinvenuta tra i suoi scritti la descrizione del telefono fatta da un amico, il dottor Pierre Dupont, Maggiore medico nell’Esercito Italiano. Il telegrafo parlante era composto da una cornetta a imbuto dentro cui c’era, verso la bocca, una lamina sottile di ferro posta di traverso e in grado di vibrare a causa delle onde provenienti dal fondo della cornetta. Dentro la cornetta si trovava un ago magnetizzato infilato dentro una bobina, in verticale lungo a cornetta, e che arrivava molto vicino con la punta alla piastrina vibrante.

Alla bobina in fondo alla cornetta era collegato un filo di rame avvolto dalla seta il cui secondo capo andava a finire in un’altra cornetta identica alla prima. Dalla seconda cornetta partiva poi un altro filo verso la prima. Se si emetteva un suono in prossimità della lama della cornetta, questa vibrava e determinava delle correnti elettriche nell’ago di ferro magnetizzato, dato che si trovava davanti a un suo polo, della durata della vibrazione della lama. E viceversa. Le onde sonore della voce diventano onde elettriche, arrivano alla seconda cornetta e si ritrasformano in onde sonore.

Schizzo raffigurante la cornetta del telegrafo parlante,
tratto da “Il Valdostano che inventò il telefono – Innocenzo Manzetti” di Caniggia e Poggianti

La prova che fosse uno strumento davvero funzionante? A parte i giornali dell’epoca, si può ricordare che lo “Stabilimento Meccanico di Applicazioni Elettriche G. Nigra” a partire dal 1884 commercializzò un telefono costruito in base ai progetti di Manzetti. Funzionava benissimo e vinse anche numerosi premi alle Esposizioni Internazionali, data la qualità superiori a molti altri telefoni in gioco. Se una cosa funziona, funziona. Punto.

Il telefono di Manzetti venne bollato come inutile e PERICOLOSO dal fisico e politico Carlo Matteucci (Ministro della Pubblica Istruzione nel governo Rattazzi I, 1862, e senatore dal 1860): l’assenza di un funzionario pubblico, necessario all’invio dei telegrammi, avrebbe permesso alla gente di comunicare senza alcun controllo e censura! Nei primi anni dell’Unità d’Italia, quando gli aspetti polizieschi dello Stato erano particolarmente accentuati, una libera comunicazione a distanza non sarebbe stata per nulla apprezzata dal governo! Un po’ come avvenne con l’oscuramento dei cellulari in Iran durante l’ultimo periodo di rivolte post-elettorali…

Non c’è da stupirsi se Manzetti, poverissimo, decise di non sprecare soldi per brevettare il telefono. Forse non ne aveva colto nemmeno l’importanza, visto che per lui era solo un modo per dare voce all’automa suonatore, ma più probabilmente furono lo spirito schivo (inventava per il gusto di inventare, non per il successo) e l’indigenza (quando a malapena si riesce a campare, non c’è tempo per la “gloria”) a fargli preferire la lontananza dal mondo degli affari e dalla ribalta scientifica.

La salute cagionevole, dovuta alle notti passate lavorando alle invenzioni, e la morte prematura delle uniche due figlie, non gli furono certo di aiuto nel suo lavoro già sufficientemente ostacolato dalla povertà e dall’ostracismo del governo. Manzetti morì ad appena 51 anni, nel 1877, senza avere il tempo né di contestare il brevetto di Bell (cosa che probabilmente non avrebbe fatto, essendo troppo povero per occuparsi di cause legali) né di far conoscere il proprio nome al mondo, che nel frattempo stava dimenticando gli articoli del 1865-1866 per concentrarsi interamente (a parte qualche raro articolo) su Bell e Meucci.

Riguardo Bell, comunque, Manzetti disse di averlo conosciuto quando venne a visitare il suo laboratorio (che era sempre aperto al pubblico) proprio per chiedere informazioni riguardo il telefono di cui parlavano i giornali. Bell probabilmente non copiò nulla, ma di certo questo incontro (Bell lasciò a Manzetti un biglietto da visita) attesta l’enorme interesse mondiale che Manzetti aveva suscitato per la qualità della sua invenzione.

Lo stato italiano, dal canto suo, preferì appoggiare un patriota amico di Garibaldi come Meucci piuttosto che un valdostano, gente considerata a malapena italiana (più francesi che italiani), isolata (non avevano neppure la ferrovia) e disprezzata. Veri e propri “terroni” del nord. Manzetti, essendo cattolico e amico di religiosi, risultava un personaggio ancora più insopportabile in un periodo in cui il Regno d’Italia era in pieno conflitto contro la Chiesa di Roma e contro la religione in generale. Meglio un buon patriota amico di Garibaldi piuttosto che un “francese” baciapreti…

Placca del 1886 posta sulla casa di Innocenzo Manzetti,
primo inventore del telefono.

Per concludere, un famoso evento accaduto dopo la morte di Manzetti.
La famiglia venne visitata il 7 febbraio1880 da due stranieri (Meyer ed Eldred secondo le ricostruzioni degli storici). Il primo era un banchiere che viveva a Parigi, il secondo era il nuovo Presidente della Bell Telephone per lo Stato del Missouri. I due uomini convinsero la vedova e i famigliari a cedere tutto il materiale e i progetti di Manzetti per 10.000 lire, un cifra enorme per le condizioni di vita dell’epoca e per la miseria nera in cui si trovavano gli eredi.

Come credenziali Eldred presentò una lettera di raccomandazione da parte dell’ambasciatore statunitense in Italia, Marsh, che dal 1864 risiedeva proprio a due passi dalla Valle d’Aosta e si occupava di ricerche scientifiche. Inoltre erano accompagnati dallo stesso Edouard Bérard, il canonico amico di Manzetti. Sembravano due gentiluomini completamente affidabili, no? L’accordo venne firmato sotto il controllo del notaio del luogo, César Grognon.

Il 14 aprile 1880, appena tornato negli USA, Eldred brevettò una miglioria al telefono di Bell proponendo in fretta e furia dei documenti che ricalcavano la descrizione del telefono di Manzetti. Eldred, sapendo che il telefono di Manzetti era migliore di quello di Bell, aveva approfittato della situazione di povertà della famiglia per appropriarsi dell’invenzione e scavalcare perfino l’inefficiente strumento ideato da Bell. Magari starete pensando “però la famiglia è stata pagata in modo più che adeguato!”

Eh, magari… la cosa più triste nella vicenda Eldred è che l’americano, dimostrandosi un capitalista yankee nel vero senso della parola, affamato di denaro per il gusto del denaro, decise di NON pagare quanto pattuito alla famiglia. Forse anche come ulteriore gesto di disprezzo contro dei poveracci italiani, esseri subumani e disgustosi per chi ha i soldi e vive nella buona società americana. Senza materiale e senza soldi, nessuno avrebbe mai potuto contestare a Bell ed Eldred l’invenzione e la miglioria del telefono sfruttando la precedenza di Manzetti (le leggi americane avrebbero premiato la precedenza storica, se dimostrata in modo inequivocabile).
La compagnia telefonica di Bell era così protetta dal più grosso nemico in campo.

La storia dei due americani non è un’invenzione che qualche fanatico manzettiniano ha tirato fuori un secolo dopo, tant’è che già nel 1883 (quando ormai era chiaro che nemmeno una lira sarebbe arrivata alla vedova) apparvero i primi articoli a riguardo. Il professor Fornari dell’Università di Milano accusò Bérard di aver stretto un patto coi due americani, che si supponeva fossero emissari della Bell Telephone Company, a danno della vedova. Le accuse vennero pubblicate su “L’Educatore Italiano” di Milano (13 e 20 dicembre 1883) e poi riportate in francese dal “Le Patriote” della Valle d’Aosta (18, 25 gennaio e 1 febbraio 1884).

Bérard cercò di difendersi con dei lunghi articoli pubblicati da “Le Patriote” (15, 18 gennaio e 14 marzo 1884) e, sostanzialmente, prese le difese della Bell Telephone Company e riportò anche la descrizione del telefono fatta dalla vedova di Manzetti in cui, venendo descritto solo l’aspetto dello stesso, non vi erano riferimenti all’ago, alla bobina e alla piastra metallica, ovvero a ciò che lo rendeva un telefono funzionante (e che abbiamo visto presenti nella descrizione di Dupont di anni prima).

Intervenne anche il Barone Bich di Aosta che scrisse il 28 dicembre 1883 a Bérard per specificare che i pochi telefoni di Manzetti rimasti, comprendenti una cornetta con una piccola piastra di metallo, erano stati affidati a Padre Denza, professore di fisica alla scuola di Moncalieri, intenzionato a onorare il ricordo di Innocenzo Manzetti. Bérard successivamente cercò di spiegare che non pensava che i due signori fossero della Bell Company (ma come? L’aveva pure difesa cercando di spacciare per “meccanico” il telefono dell’amico…) e che anzi, fossero proprio intenzionati a usare il materiale ricevuto per far annullare il brevetto di Bell!

Il fratello di Innocenzo Manzetti, Louis, fece cercare a lungo i due americani, sia a New York che a Parigi, ma sembravano essersi volatilizzati. Solo molto tempo dopo, analizzando la data di entrata in servizio come direttore di Eldred, il suo nuovo brevetto e i tempi di viaggio verso Aosta e ritorno, si poté scoprire (con un margine di dubbio minimo) che era stato proprio lui a truffare la vedova, approfittando della buona fede di un prete un po’ scemotto.

La questione “Manzetti” fu anche oggetto di discussione nel Parlamento italiano nel 2002, quando gli USA riconobbero ad Antonio Meucci il suo ruolo nell’invenzione del telefono. Giustamente qualcuno si domandò se non era il caso, viste le prove presenti, di non rendere giustizia anche a Manzetti. Non ho assolutamente idea di come si concluse la cosa… immagino a fischi e “ma vai a lavorare che abbiamo altro a cui pensare, coglione!”. ^_^

Per concludere un servizio di Voyager del 2009 dedicato a Manzetti. Come sempre il programma si contraddistingue per l’assoluta mancanza di approfondimenti, per le sparate alla cazzo, per le imprecisioni e per l’atmosfera da Teoria del Complotto… ma questa volta, quanto meno, ci sono buone immagini dell’automa e un paio di frasi interessanti del biografo di Manzetti.

Approfondimenti:

Menabrea, pioniere italiano dell’informatica

Su Luigi Federico Menabrea (1809-1896, scienziato, generale e politico) metterò poche righe, dato che si tratta solo di un “nome italiano” da usare nel caso si volessero introdurre i calcolatori meccanici nelle proprie storie e quindi servisse un personaggio di riferimento a cui attribuire il ruolo di geniaccio della situazione. Per la storia dei calcolatori rimando ai molti libri dedicati alla macchina analitica di Babbage e d’intorni, come Jacquard’s Web – How a hand-loom led to the birth of the information age, Glory and Failure – The Difference Engines of Johann Müller, Charles Babbage and Georg and Edvard Scheutz, Charles Babbage and the Engines of Perfection, The Computer from Pascal to von Neumann, The Difference Engine – Charles Babbage and the Quest to Build the First Computer e Charles Babbage and his Calculating Engines, giusto per citare i pochi che ho avuto modo di leggere/consultare nell’enorme mole di produzione disponibile.

Luigi Federico Menabrea, primo ministro tra il 1867 e il 1869 (Governo Menabrea I, II e III), membro del Parlamento piemontese dal 1848 e senatore per 36 anni. L’uomo giusto per informatizzare un Regno d’Italia “Steampunk”.

Re Carlo Alberto del Regno di Sardegna nel 1840 organizzò un Congresso degli scienziati italiani a Torino, presso l’Accademia delle Scienze. Una riunione di cervelloni per dare prestigio intellettuale al regno (i Savoia non brillavano per intelligenza né per cultura). L’astronomo Giovanni Plana invitò il famoso Charles Babbage che presentò al pubblico il complesso progetto per la realizzazione della macchina analitica, un calcolatore meccanico programmabile. La presentazione del concetto di “programmazione” per calcolatori entusiasmò gli scienziati italiani, tanto che Babbage proseguì le spiegazioni del suo progetto in una serie ulteriore di seminari privati.

Tra gli appassionati della nascente informatica vi erano il fisico Ottaviano Mossotti e Luigi Federico Menabrea, un capitano del Genio che rimase profondamente colpito dalle possibili applicazioni di uno strumento incredibile come il calcolatori meccanico programmabile, tanto da pubblicare nell’ottobre 1842 un articolo dedicato proprio alla descrizione del progetto di Babbage: Notions sur la machine analytique de Charles Babbage, presso la Bibliothèque Universelle de Genève (il francese rimase la lingua ufficiale della casa regnante per anni anche dopo la nascita del Regno d’Italia, e le persone di cultura a lungo guardarono a Parigi e ai suoi avvenimenti come se quella fosse casa loro). Questo testo è considerato il primo lavoro scientifico nell’ambito dell’informatica.

Nel 1843, su richiesta di Babbage, il testo di Menabrea venne tradotto in inglese e notevolmente ampliato da Ada Lovelace, che vi aggiunse anche quello che è considerato il primo programma della storia: un algoritmo per il calcolo dei numeri di Bernoulli! Ada Byron, contessa di Lovelace, è anche famosa per il Regime di Lovelace, ovvero l’idea secondo cui un calcolatore non può creare nulla di nuovo né anticipare niente, ma solo analizzare e rendere accessibili informazioni già acquisite ovvero, spiegandolo in modo ancora più semplice, che un calcolatore fa solo ciò che gli si dice di fare.

Un pezzo della Macchina Analitica (o Macchina Matematica), nella versione semplificata come modello di prova, realizzato da Babbage ed esposto ora allo Science Museum di Londra.

Qui si trova il testo di Menabrea tradotto e ampliato da Ada Lovelace.
Per chi dovesse dubitare che una donna possa aver scritto il primo programma della storia, riporto le parole dello stesso Charles Babbage che afferma di averla aiutata per la parte matematica, ma precisa anche che Ada (che non si era limitata a copiare bovinamente) aveva rilevato un grossolano errore da lui compiuto nel materiale che le aveva passato:

I then suggested that she add some notes to Menabrea’s memoir, an idea which was immediately adopted. We discussed together the various illustrations that might be introduced: I suggested several but the selection was entirely her own. So also was the algebraic working out of the different problems, except, indeed, that relating to the numbers of Bernoulli, which I had offered to do to save Lady Lovelace the trouble. This she sent back to me for an amendment, having detected a grave mistake which I had made in the process.

(Charles Babbage in Passages from the Life of a Philosopher, 1846)

Una curiosità che può venir buona per qualche ulteriore incrocio tra personaggi: Babbage era accompagnato da Federico Prandi, un piemontese che viveva in esilio a Londra a causa della condanna a morte per aver partecipato ai moti del 1821. Prandi venne graziato e divenne un imprenditore, fondando nel 1846 la Taylor & Prandi, azienda meccanica dedicata alla costruzione di piroscafi che fallirà dopo poco e dalle cui macerie nascerà nel 1853 la Ansaldo per volontà di Cavour!

Menabrea si potrebbe sfruttare come “mente” dietro l’informatizzazione del Regno d’Italia (calcolatori dedicati per il tiro dell’artiglieria, tabulazione dati per schedare la popolazione su modello del Censimento USA del 1890 ecc…) e Prandi come capitano d’industria che si occupa di produrre i diversi calcolatori del Regno, sia programmabili che dedicati. Magari grazie all’interessamento di Cavour in grado di coinvolgere i capitali del banchiere Carlo Brombini e le capacità dell’ingegnere Giovanni Ansaldo in un grande polo meccanico-informatico. Macchine Matematiche Ansaldo-Prandi!

Spunti misti ulteriori

L’articolo ha raggiunto dimensioni immonde, ma ci sono ancora alcuni spunti storici e tecnologici che voglio citare, prima di concludere con l’altra faccia del Risorgimento, quella Meridionale. Cominciamo.

La rivoltella sarda.

Grazie a Focus Storia numero 39 ho scoperto (unica scoperta in un numero che per il resto sapeva di già visto) un certo Francesco Antonio Broccu di Gadoni (provincia di Nuoro), nato nel 1797 e morto non si sa quando, che inventò nel 1833 un revolver con quattro colpi e quattro canne rotanti (uh, ma così sembrerebbe più una pepaiola che non una rivoltella!) e poi un altro revolver con quattro colpi e due canne (WTF?). La pistola venne vista da Re Carlo Alberto durante il viaggio in Sardegna del 1843, ma Broccu non se la sentì di abbandonare il suo paesino per andare a Cagliari a mostrare l’invenzione, che non venne mai brevettata. Il revolver a percussione Colt venne inventato nel 1836.
Non ho mai trovato foto né informazioni più precise. Potrebbe anche essere un falso storico. Se qualcuno ha qualsiasi genere di notizia a riguardo, me lo faccia sapere.

Personaggi particolari in battaglie particolari.

Pare che alla battaglia di Mentana del 1866, quella in cui i soldati di Garibaldi vennero ignominiosamente sconfitti dai soldati francesi armati coi nuovissimi fucili a retrocarica Chassepot, avesse partecipato anche la signora Helena Blavatsky (fondatrice nel 1875 della Società Teosofica) che era in viaggio per l’Europa in cerca dei cosiddetti Maestri. Non mi dilungo oltre e non ho letto i libri a lei dedicati. Si beccò alcuni proiettili (grossi, da 11 mm!) e si ruppe pure un braccio: se fosse accaduto davvero la sua sopravvivenza sarebbe un evento paranormale degno della Società Teosofica. Lascio questo spunto per i fan di Madame Blavatsky che sapranno come sfruttarlo (io quando si tratta di Società Teosofica preferisco Arthur Conan Doyle che si arrapa con le fatine).
Altro personaggio importante ad aver combattuto fu Antonio Pacinotti, come sergente volontario presso Goito, ai margini delle battaglie di Solferino e San Martino, nel 1859. Pacinotti ha conquistato il suo posto nella storia come primo inventore della dinamo (“anello di Pacinotti”), che chiamava scherzosamente la sua “macchinetta”, nel 1860 anche se alcuni ancora contestano l’evidenza storica (definendola un mero “prototipo”) e preferiscono attribuire l’invenzione a Teofilo Gramme.

Antonio Pacinotti con la sua “macchinetta”.

Una carrellata di altra roba “perché sì”.

Il primo servizio di posta pneumatica in Italia si ebbe a Genova negli anni 1850, ma si sviluppò poco: un Regno di Sardegna pieno di posta pneumatica negli uffici dei burocrati, magari unito ai calcolatori meccanici, può essere una cosa carina. Tra gli 007 del Risorgimento non si può non segnalare Giuseppe Govone, ufficiale coraggiosissimo, volontario a Balaclava (nella famosa carica gli morì il cavallo) e Legion d’Onore dopo la battaglia della Cernaia.

Partecipò anche al vergognoso Sacco di Genova del 1849 prima di dedicarsi al massacro di civili innocenti durante la repressione del “brigantaggio” nel meridione (la sua repressione fu così feroce che la questione arrivò in Parlamento: era un “criminale di guerra” perfino per gli standard piemontesi del periodo!). Nel 1859, quando era tenente-colonnello, fu posto a capo dell’Ufficio d’Informazioni e delle Operazioni Militari (Ufficio I), i primi servizi segreti militari della storia del Regno di Sardegna. Maggiori informazioni in Storia dello Spionaggio (Atti della Tavola Rotonda – Biella, 23 settembre 2005).

Tra i grandi nomi che hanno segnato le armi da fanteria del Regno, non si può dimenticare Salvatore Carcano: ben prima del suo modello 91 si occupò della conversione a retrocarica dei fucili (1868) con un sistema ad ago adattato all’esigenza italiana (spendere meno soldi possibili per la conversione) e una trovata ingegnosissima nel design delle munizioni che, se non fosse per il grande calibro, li renderebbe i migliori fucili ad ago della storia. Sul suo “convertito” tornerò nell’articolo sui fucili ad ago, in futuro, ma in ogni caso rimane un ottimo nome da sfoggiare per un eventuale fucile a retrocarica (anche col bossolo metallico, come voleva proporre Carcano nel 1868, ma costavano troppo!) in un Regno d’Italia Steampunk molto più ricco e tecnologico.

Giovanni Cavalli divenne famoso per il grande impulso che diede alle fonderie di cannoni e all’adozione di nuove artiglierie rigate a retrocarica (dal 1844), oltre che per i suoi fantastici carreggi per l’artiglieria (sistema Cavalli, usato fino al 1882 per i pezzi da campo). Fu anche un sostenitore del bisogno di adottare fucili a retrocarica.
Oltre ai computer meccanici e alla posta pneumatica, il Regno d’Italia Steampunk potrebbe avere un enorme burocrazia poliziesca dotata di macchine da scrivere (invenzione di Pellegrino Turri del 1808) con tanto di carta carbone per le copie (sempre Turri, 1806). E oltre ai soliti, meravigliosi, cipolloni potrebbe esserci anche qualche orologio elettrico (Giuseppe Zamboni nel 1831).
Spunti e nomi a sufficienza per cominciare a immaginare un Risorgimento Alternativo?

L’altra Italia: il Regno delle Due Sicilie

Nella propaganda spacciata per “storia” alla scuola dell’obbligo non si dà spazio a sufficienza a quel 37% di italiani che l’Unità d’Italia non solo non l’hanno chiesta, ma addirittura l’hanno subita come un atto di violenza e un periodo di soprusi. Vi furono atrocità degne dell’occupazione nazista per “qualità” e ben maggiori per “quantità”, considerando la durata della guerra al brigantaggio, nome dietro il quale si nascondeva la guerra civile in atto. Nei libri di scuola, al massimo, si accenna al brigantaggio come a una lotta al crimine locale o, sfruttando in malafede le parole tratte dal Gattopardo, si fa credere che “schifo era prima e schifo rimase” come se il cambio di padrone non avesse determinato alcun cambiamento in un mondo meridionale che si vuole mostrare come arretrato, agricolo, superstizioso, indolente, corrotto… insomma “Terrone” da secoli e secoli. Al brigantaggio ho già accennato prima, nell’introduzione dell’articolo, ma questo massacro riguarda il “DOPO”… invece volete sapere come era il Regno delle Due Sicilie PRIMA di venire “rubato” dal Piemonte?

Sarò breve e wikipediano (no, non copio-e-incollo, ma dato che le fonti sono buone e confermano altri testi che avevo letto, prenderò parecchio da lì). Il Regno delle Due Sicilie fin da quando era ancora Regno di Napoli nel ‘700 aveva avuto un altissimo livello di benessere e civiltà: giornali e riviste, stamperie, centri di cultura, manifatture ecc… che aumentarono sempre più, tanto che all’alba della rivoluzione francese c’era già una attenzione al welfare (istruzione obbligatoria, garanzie sul luogo di lavoro, tasse a livelli accettabili, aiuti di Stato per gli sposi) che l’arretratissima Francia si poteva solo sognare.

Il Regno delle Due Sicilie: un terzo di italiani che subirono i soprusi e la violenza dell’unificazione. “L’altra Italia” che non trova posto negli insegnamenti delle scuole pubbliche.

Con la nascita del Regno delle Due Sicilie nel 1816 le cose continuarono a migliorare, perlomeno per quel meridione che era stato il Regno di Napoli (la Sicilia rimase sempre indietro), in particolare per quanto riguarda la popolosa Campania e una certa area della Calabria. Il Regno delle Due Sicilie aveva 2/3 circa delle lire oro circolanti in tutti gli Stati italiani pre-unitari (contro il 4% del solo Regno di Sardegna, da L’Unità d’Italia: nascita di una colonia di Nicola Zitara, 1971).

Si è detto che era un regno “agricolo” come se significasse che era, di conseguenza, arretrato. Invece no: il regno fu premiato come terzo stato più industrializzato d’Europa all’Esposizione Universale di Parigi nel 1855. Il fatto che poi, in virtù della notevole efficienza e della ricchezza dei suoi territori, aveva pure più del 50% dell’intera produzione agricola italiana non lo rende un regno “arretrato” bensì un regno ricco e prospero in entrambi i settori, industriale e agricolo. Anche l’allevamento era per numero di capi (sia assoluto che in rapporto alla popolazione) molto superiore a quello di tutto il resto della penisola. Le piccole aziende agricole erano sostenute e finanziate dai Monti Frumentari.

Il Regno delle Due Sicilie ebbe la prima nave a vapore del Mediterraneo (1818), il primo ponte sospeso in ferro dell’Europa continentale (1832, realizzato dal polo siderurgico di Mongiana, in Calabria, che vedremo dopo), la prima linea ferroviaria italiana (la Napoli-Portici inaugurata nel 1839), l’illuminazione a gas (1839) e l’Osservatorio Vesuviano (1841). Successivamente l’espansione ferroviaria fu ridotta rispetto a quella di altri paesi occidentali, ma ciò era dovuto alla facilità dei trasporti navali e alla mancanza di bisogno di ferrovie per proiettare unità militari (data la neutralità internazionale del regno e le già ridotte spese militari).

A Pietrarsa vi era il più grande impianto industriale metalmeccanico di Italia, di fronte al quale la nascente Ansaldo impallidiva: produceva caldaie, macchine utensili, rotaie, cannoni, alta tecnologia per navi e locomotive. Il complesso era così famoso nel mondo che venne visitato perfino dallo zar Nicola I: voleva copiare Pietrarsa per realizzare il complesso ferroviario di Kronstadt!

Reale Opificio Meccanico e Politecnico di Pietrarsa.

Sfortunatamente, come tutto il Regno, anche Pietrarsa era orientata più al settore civile che a quello militare, per cui quando arrivò la guerra i cannoni obsoleti non erano stati sostituiti da moderne artiglierie rigate come le avevano invece i piemontesi. Stesso discorso per l’equipaggiamento individuali dei soldati, arretrato e in corso di (lento) rinnovo. La scarsa attenzione per il costoso settore militare era dovuto alla volontà di concentrare ogni sforzo e ogni denaro nel settore civile, in modo da non dover aumentare il carico fiscale sulla popolazione (le tasse erano la metà di quelle subite dai popolani piemontesi e non c’era la tassa sulla farina!).

Ferdinando II e il suo successore pensavano di poter evitare conflitti semplicemente rimanendo neutrali ed estranei ai giochi di potere tra le grandi potenze: fu invece proprio l’isolamento a renderli deboli e appetibili per il Piemonte, come un riccone pauroso con le tasche piene di soldi può esserlo per un delinquente che lo incontri in un vicolo di notte. Il Piemonte aveva invece concentrato tutte le sue risorse per diventare una nazione guerriera, ignorando i bisogni della popolazione (le condizioni di vita erano molto peggiori e i primati tecnologici irrilevanti): la strategia si rivelò vincente quando il castello di carte delle Due Sicilie collassò per gli egoismi locali degli aristocratici e per l’ingenuità del popolo capeggiato da avidi borghesi anti-borbonici.

A Castellammare di Stabia vi era il grande cantiere navale, che produsse varie pirofregate (ma anche nell’ambito delle costosissime navi da guerra, dopo la Archimede a pale -sigh!- del 1844, rimasero un po’ troppo indietro) e tante navi per uso civile, come la Giglio delle Onde (1847) con propulsione ad elica, la prima nave di quel tipo nel Mediterraneo. La marina commerciale (non militare) napoletana era la terza d’Europa, dopo Francia e Inghilterra, per tonnellaggio e numero di navi. Un bella minaccia alla volontà di egemonia economica inglese nel Mediterraneo.

“Oggidì è il primo arsenale del regno, e tale che fa invidia a quelli di parecchie regioni d’Europa. Sonovi in esso vari magazzini di deposito, e conserve d’acqua per mettere a mollo il legname, e sale per i lavori, e ferriere, e macchine ed argani, secondo che dagli ultimi progressi della scienza sono addimantati, e mercè dei quali abbiamo noialtri veduto con poco di forza e di gente tirare a secco un vascello nel più breve spazio di tempo.”

(Achille Gigante, Viaggi artistici per le Due Sicilie, 1845)

La pirofregata a ruote “Archimede” del 1844. Come gran parte delle navi da guerra del Regno era ormai obsoleta nel 1860, quando la rivoluzione delle nuove corazzate a elica e dei cannoni rigati con proiettili esplosivi era in pieno svolgimento.

Altra caratteristica fondamentale del Regno delle Due Sicilie è che non si limitava a importare tecnologie ed esperti, ma produceva tecnici qualificati (come fece anche il Giappone o la Cina) per acquisire l’autonomia e sfidare per eccellenza tecnologica gli altri paesi. Un esempio, oltre a quello dell’industria mineraria calabrese, è quello dei macchinisti delle navi: all’inizio erano inglesi, ma poi le competenza vennero acquisite e il regno iniziò a sfornare macchinisti navali e ferroviari grazie alla nuova scuola ospitata nel complesso di Pietrarsa. Nel 1857 invece il Piemonte ancora era costretto a impiegare tecnici inglesi (si veda il caso della restituzione del piroscafo Cagliari).

Anche l’industria mineraria calabrese era in salute. La Calabria ha avuto fin dal medioevo una tradizione legata all’estrazione del ferro, grazie alle molte ricche miniere, e poco distante da Vibo Valentia (il buco del culo della Calabria, oggi) si trova Mongiana, che era il secondo polo siderurgico del regno, con le sue fonderie, i tre altiforni e la fabbrica d’armi (di dimensioni modeste, nella migliore delle ipotesi poteva produrre solo 8.000 armi tra spade, pistole e fucili in un anno… il fucile rigato borbonico prese il nome proprio da quel luogo, “modello Mongiana”).

A Mongiana facevano capo le varie ferriere presenti nell’area circostante. La qualità del ferro battuto e delle ghise prodotte era altissimo, grazie agli esperti di metallurgia all’avanguardia e all’uso del prezioso carbone di faggio (un carbone senza fosforo e zolfo, permette di produrre acciai al carbonio validissimi grazie alla minore presenza di scorie). Nella sola Mongiana lavoravano 1.500 operai specializzati (di cui appena 100-200 nella fabbrica d’armi: come già visto il settore militare venne spesso trascurato).

Parte degli operai erano “filiati” ovvero coscritti che invece di fare il servizio di leva sotto le armi, firmavano un contratto di lavoro a paga ridotta. Questa sorta di servizio civile aveva il vantaggio di insegnare un mestiere a tanti giovani, oltre a garantire manodopera a costo ridotto alle industrie statali. Essendo un centro di importanza strategica, Mongiana non aveva un sindaco: era posta sotto il controllo di un comando d’Artiglieria di stanza permanente dal 1818.

L’ingresso dell’Armeria di Mongiana, con le due colonne doriche in ghisa. Bellezza e progresso assieme, come era consuetudine nel Regno delle Due Sicilie (un concetto di bellezza sul luogo di lavoro che tornerà con Olivetti nel secondo dopoguerra).

Ferdinando II (regno dal 1830 al 1859) si ispirò al modello di sviluppo economico di Jean-Baptiste Colbert, che aveva permesso la nascita delle industrie francesi, istituendo un regime protezionistico con interventi massicci dello Stato nell’economia, ma limitando gli investimenti statali al surplus di cassa dovuto alle esportazioni agricole. In tal modo fu in grado di evitare l’indebitamento pubblico e non dovette aggravare la pressione fiscale, che anzi venne ancora ridotta e rimase tra le più basse d’Europa.

Altri stati, come il Regno di Sardegna, erano invece ricorsi pesantemente all’indebitamento bancario per svilupparsi e sopravvivere, non avendo le ricchezze manifatturiere e agricole del Regno delle Due Sicilie. Basta pensare che dopo aver razziato il meridione quell’enorme massa di soldi bastò appena al Regno d’Italia per pagare i debiti e lanciare le industrie settentrionali, per cui quando Carcano chiese 55 lire a fucile per i 500.000 fucili a retrocarica nuovi richiesti, gli venne risposto che al massimo gli avrebbero dato 10 lire ad arma per una blanda conversione di quelli vecchi.

Ferdinando II, la cui burocrazia da poco riformata venne indicata come modello di efficienza dagli emissari del Regno di Sardegna (e non, come si dice in palese contrasto con le fonti storiche, di corruzione), era prima di tutto interessato al bene del popolo. L’industrializzazione doveva essere guidata per fare bene al popolo, non solo per rendere ricchi quattro stronzi borghesi monopolisti. Il modello di “sviluppo lento” funzionava perché si basava sull’abbondanza di materie prime (ferro, zolfo, sale) e manifatture tradizionali (esportavano di tutto), sul risparmio (vennero ridotte all’osso le spese di corte per poter investire di più) e sui primati tecnologico-industriali (ghise e navi mercantili di altissima qualità).

Ferdinando II arrivò a considerare i borghesi un corpo parassitario dello Stato, interessato solo ad arricchirsi alle spalle del popolo più debole. Se questo era falso in altri stati evolutisi diversamente, era però completamente VERO nel particolarissimo caso del Regno delle Due Sicilie. Insomma, avete capito che il Sud non era un inferno. Non serve che dica altro.

Se volete saperne di più, leggete (sfrondando le parti più assurdamente propagandistiche) il libro di Pino Aprile indicato negli approfondimenti.

Ferdinando II, un monarca illuminato che impose un modello di stato che si potrebbe definire “socialista”, ma solo negli aspetti positivi, dove lo sviluppo economico era guidato dall’alto per non essere mai a scapito del benessere delle fasce più deboli della popolazione.

Ciò che fece cadere il Regno furono gli egoismi locali, le false promesse e il settore militare ridotto a un colabrodo, abbandonato dopo i primi tentativi di ammodernamento oltre dieci anni prima: ufficiali del tutto inesperti (e talvolta corrotti e traditori, come in Sicilia) uniti a una massa di truppe incapaci di combattere, abituate al semplice servizio di guarnigione (si salvavano solo i 20.000 Cacciatori, fanteria leggera di altissimo livello).

Gli egoismi locali permisero la risalita di Garibaldi, con la Sicilia in mano ad aristocratici e borghesi desiderosi di riottenere l’indipendenza dai Borbone per spartirsi tra loro il potere: chi controllava i borghesi/benestanti controllava il popolo (la rivoluzione francese, le rivolte contadine medievali, tutte erano guidate dai contatti “intellettuali” del volgo, la piccola borghesia di avvocati, professionisti e notai), come capirono gli inglesi che disinnescarono il socialismo dando più diritti e benessere proprio ai capi degli operai.

La Sicilia era sempre stata sull’orlo della rivolta, a causa della fame di potere dei suoi “ricchi”, nascosta dietro richieste puramente demagogiche di Libertà, Diritti e Costituzione. Il soprannome “Re Bomba” gli venne proprio dalla repressione a cannonate delle insurrezioni indipendentiste del 1848-1849. Il popolo siciliano invece, come sempre, era tenuta nella massima considerazione da Ferdinando II che visitò la saline siciliane più volte, per assicurarsi delle condizioni di vita, e fondò per loro nel 1847 San Ferdinando di Puglia, una colonia agricola in cui distribuì gratuitamente le terre e i capitali per le case popolari!

In Calabria le condizioni di vita erano peggiori che nel resto del regno: nonostante l’industria mineraria e le molte piccole aziende che producevano distillati (esportati in tutta Italia) attorno a Cosenza e a Reggio, c’erano anche enormi sacche di povertà nei paesini e nei villaggi isolati (come racconta il vescovo di Bova nel 1834, in una lettera a Ferdinando II), non diverse da certe sacche di estrema povertà nel Regno di Sardegna, ma spaventose se paragonate al benessere diffuso che c’era in Campania. Anche lì ci volle poco a Garibaldi per fare accordi con la “mafia” locale, gli intermediari tra aristocratici e popolo, e passare senza troppo sforzo.

Anche in Calabria “Re Bomba” si trovò ad attuare repressioni contro i ribelli. Sempre alla Calabria si collegano i famosi fratelli Bandiera, due veneziani ufficiali nella marina militare austriaca che nel 1844 cercarono di unirsi alla ribellione in corso a Cosenza. Quella del 1844 fu una ribellione ben poco “di massa” (non proprio le Cinque Giornate di Milano), visto che i patrioti italiani rivoltosi che si scontrarono con le guardie borboniche erano appena 21. I Bandiera arrivarono troppo tardi, quando era già stata sedata la tremenda “sollevazione di popolo” da un pezzo, e furono catturati con i loro 17 compagni. Quello dei fratelli Bandiera è uno dei rari casi in cui la clemenza che caratterizzava Ferdinando II fu minima: vennero messi a morte loro due e quasi tutti i loro compagni. Nel caso dei precedenti 21 rivoltosi, per fare un esempio della pietà di Ferdinando II, solo 6 erano stati messi a morte: un Re meno generoso non solo avrebbe ucciso loro, ma anche infierito sui parenti.

Ma poi, quando si trattò di combattere, non furono certo i Mille di Garibaldi a conquistare Gaeta: fu il generale Cialdini coi sui 450 cannoni moderni a tiro lungo ad aver ragione dei 180 cannoni di Francesco II. Senza parlare di Liborio Romano, il prefetto di polizia filo-piemontese, legato agli ambienti criminali napoletani, che preparò l’arrivo di Garibaldi e prese accordi con Cavour, colpendo dall’interno il proprio paese e tradendo il proprio Re in cambio di denaro e potere (divenne perfino deputato!).

Liborio consigliò a Francesco II di fuggire a Gaeta per evitare le sofferenze di un assedio, in cui però avrebbe vinto, al popolo. Franceschiello, che era un fessacchiotto col cuore d’oro, cadde nel tranello e lasciò perfino i suoi soldi personali ai napoletani! E neppure a Volturno furono i Mille a vincere: Garibaldi comandava un esercito meridionale di 24.000 insorti (un po’ più dell’eroico migliaio delle leggende), in pratica quanto gli avversari che però erano svantaggiati dalla guida di ufficiali inesperti a causa del “pacifismo” decennale del Regno delle Due Sicilie che li aveva tenuti lontani da tutti i conflitti.

Alcune conferme “non sospette” del benessere nel Regno delle Due Sicilie: o forse anche Alberto Angela è un indipendentista meridionale filo-borbonico?

Le enormi ricchezze del banco delle Due Sicilie, unite alla refurtiva varia e all’enorme imposizione fiscale, permisero di rifornire l’erario del nuovo Regno d’Italia, pagare l’enorme debito pubblico del nord (se il meridione si era industrializzato evitando le spese militari e sfruttando il surplus prodotto dal settore agricolo, non si poteva certo dire lo stesso di regioni arretrate, e in mezzo alle guerre per anni, come Piemonte e Lombardia) e finanziare le industrie settentrionali.
Le industrie del sud vennero ridimensionate o chiuse, anche a causa della fine del protezionismo che stava permettendo il loro sviluppo nel mercato interno senza subire la concorrenza degli inglesi o di altri colossi internazionali. Basta pensare al polo siderurgico di Mongiana che venne prima convertito e poi praticamente abbandonato perché “nei paesi moderni simili industrie vanno poste vicine al mare e non in montagna come nel Medioevo”, la scusa ufficiale del Regno d’Italia, ma poi decisero di assegnare il vecchio ruolo chiave di Mongiana a Terni (1884), in Umbria, che è perfino più lontana dal mare! LOL!

Gli investitori internazionali, nel mezzo dei massacri della guerra civile spacciata per lotta al brigantaggio, smisero di portare lavoro e capitali al sud che venne completamente abbandonato fino al 1878 quando il Regno d’Italia fece i primi blandi piani per la sua industrializzazione, ma ormai l’economia di intere regioni era andata distrutta. Il sud divenne una colonia economica del nord, grazie anche ai dazi doganali favorevoli per esportarvi prodotti finiti e comprare materie prime (sale e zolfo in primis).

[…] l’estensione delle basse tariffe doganali piemontesi a province economicamente arretrate [Nota: si parla della Calabria] ebbe spesso il risultato di soffocare o annientare le industrie locali.

(Denis Mack Smith, il grande storico)

La miseria che seguì ai furti, ai massacri e alla spartizione delle ricchezze in mano a pochi capitalisti portò a un massiccio flusso migratorio, quasi assente nel periodo borbonico. Un ulteriore colpo venne col protezionismo italiano del 1888: l’agricoltura del Sud, che campava esportando perché era un’agricoltura mercantile e non di sussistenza, subì il colpo di grazia. Le masse di operai agricoli poterono solo emigrare…

Leggendo la storia ufficiale non vi siete mai domandati come mai dal “superstizioso e retrogrado” Meridione nessuno fuggiva, mentre scapparono in massa quando venne “illuminato dalla scienza e dal progresso settentrionale”? Ora lo sapete.

Questa distruzione, unita alle stragi di “briganti”, era condita con una propaganda ipocrita sul civilizzare i selvaggi del sud preda della povertà e della superstizione cattolica. Roba degna della peggiore retorica sull’esportazione della libertà e della democrazia vomitata dagli Americani negli ultimi cento anni. Una cosa fuori dal mondo se si considera che, all’epoca, di norma le intenzioni venivano dichiarate in modo più schietto senza nascondersi dietro balle mediatiche così grosse (però in questo caso dire “Si va a distruggere una nazione per rubarle i soldi!” non poteva funzionare nelle orecchie dei patrioti risorgimentali). Eccone un assaggio:

Il piemontese conte Alessandro Bianco di Saint-Jorioz era capitano nel Corpo di Stato Maggiore Generale; in armi, aveva partecipato alla distruzione del Regno delle Due Sicilie e al massacro dei meridionali. Lo aveva fatto (scrisse in Il brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1860 al 1863), convinto di combattere contro «la povertà dei coloni agricoli, la rapacità e la protervia dei nobili, l’ignoranza turpe» e la superstizione, il fanatismo, l’idolatria, la sregolatezza dei costumi, l’immoralità, le corruttele di impiegati, magistrati e pubblici funzionari, la rapina, il malversare. Insomma: il male. Questo, gli avevano raccontato, era il Sud.
Capì tardi, ammise, che quel popolo era «nel 1859, vestito, calzato, industre, con riserve economiche. Il contadino possedeva una moneta. Egli comprava e vendeva
animali; corrispondeva esattamente gli affitti; con poco alimentava la famiglia, tutti, in propria condizione, vivevano contenti del proprio stato materiale. Adesso è l’opposto». Perché, con l’invasione piemontese, «in pochi anni le proprietà si concentrarono a pieno nelle mani dei ricchi, degli speculatori, degli usurai e dei manipolatori… Tu vedi uomini di merito languire. Spopolati gli studi di tanta gioventù». E i beni delle famiglie erano depredati con tasse di successione così abnormi «che con tre successioni nella famiglia stessa, che possono verificarsi anche in un anno, dalla agiatezza si balza nella mendicità qualunque famiglia».

(Tratto da Terroni, di Pino Aprile)

Approfondimenti:

Perché scegliere il Regno delle Due Sicilie

L’articolo ha raggiunto dimensioni considerevoli, ma è necessario aggiungere un pezzo ulteriore affinché sia “completo”. Se appare evidente il motivo per cui può valer la pena ambientare storie nell’Italia del Risorgimento dal punto di vista degli eroici patrioti, dei vincitori settentrionali e dei Mille di Garibaldi, un po’ meno evidente può essere l’altrettanto valido motivo di dare spazio al punto di vista del Sud Italia.

Prima di tutto, credo sia giusto sottolinearlo, è sicuramente un argomento poco sfruttato. Essendo la storia del Sud meno nota del resto del Risorgimento c’è allora anche meno concorrenza possibile.
Tanti potrebbero scrivere, in un impeto d’orgoglio patriottico, una gloriosa storia di sangue in cui l’enorme Automa sabaudo “Manzettinga” distrugge l’artiglieria asburgica a Custoza con il suo enorme flauto-da-guerra, mentre i Bersaglieri Motorizzati grazie ai veicoli da fanteria Barsanti-Matteucci incalzano gli austriaci e li friggono coi fucili elettrici Carcano-Pacinotti.
Oppure qualche minchiata ancora peggiore, in cui i Mille di Garibaldi (conditi con supertecnologie artigianali random) invadono la Sicilia e liberano il popolo dal giogo dei Padroni. Garibaldi in punta di spada, come nella peggiore propaganda, trionfa con la sua Superiorità Morale Eurasica sull’Ignoranza e la Corrusione Eurafricana: “Arrenditi Terrone e abbandona la Zappa del tuo Medioevo: noi ti si porta il Progresso del Motore a Vapore!”. Segue uccisione del principe Eurafricano e liberazione delle masse contadine tenute in catene! In questo scenario Ferdinando II potrebbe essere ancora vivo, ma sotto forma di un mostruoso obeso malato che svolazza in giro (è il Re dei Mostri Immorali, deve essere il più mostro di tutti!), su modello del barone Vladimir Harkonnen del film Dune di Lynch.
Per delle idee ancora più idiote dovete aspettare un piccolo post dedicato.

Per chi ama mettere il “punk” nello Steampunk: la ribellione meridionale.

Per quanto non obbligatorio, il “punk” (inteso come ribellione alla società, ai costumi e bla bla bla e non come componente del nome Steampunk NON collegata a quelle cose) può trovare il suo ruolo Risorgimentale naturale nel Sud Italia. Ovviamente non il Sud Italia di una storia alternativa che veda fallire l’annessione piemontese: il Sud occupato e oppresso della lotta al brigantaggio.

Prendendo spunto dagli eventi storici e condendo il tutto con elementi fantastici e fantascientifici (solite regole del cosa distingue lo Steampunk dalla semplice Ucronia), si può rileggere la tragedia del Sud filtrando il tutto con occhio moderno e disincantato (pure questo fa parte delle basi dello Steampunk, il fatto che scrivendo a distanza di oltre un secolo forniamo un punto di vista diverso rispetto a quello degli scrittori dell’epoca a cui ci ispiriamo… spiegherò poi il tutto per bene in futuro, riprendendo l’esempio delle “innocenti Edisonate” usate da Jack Nevins).

Mettersi dalla parte dei briganti, usare come sfondo massacri e soprusi degni del Nazismo, mostrare l’altro volto del Risorgimento dalla parte degli “Sconfitti della Storia”, ma senza desiderio di indottrinare o di far propaganda filo-borbonica: semplice volontà di narrare buone storie. Col semplice “intrattenimento” della narrativa d’avventura si può far vedere in modo ancora più efficace l’orrore della piemontesizzazione per incuriosire il pubblico e invogliarlo a informarsi di più sulla Storia d’Italia. Unire la storia che a scuola non si insegna con il piacere della lettura di un genere che, si spera, possa essere sempre più di moda. Intrattenimento e istruzione assieme.

Michelina De Cesare (1841-1868), la bella e coraggiosa brigantessa uccisa in combattimento. Venne denudata per la foto del cadavere, in modo da sembrare una lurida primitiva come voleva la propaganda piemontese.

“Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti.”

(Antonio Gramsci sul settimanale L’Ordine Nuovo, 1920)

Restituire al Sud il destino che gli è stato “rubato”.

Storia alternativa e retrofuturismo: il Regno delle Due Sicilie non viene sconfitto! Nel nostro mondo una intera nazione, circa un terzo degli italiani, ha perso il diritto di decidere il proprio destino ed è stata privata del proprio diritto all’autodeterminazione. Questo non era il finale ovvio della vicenda. La spedizione dei Mille (e il suo successo) dipese pesantemente da due fattori che si possono facilmente modificare:

  1. la grottesca morte di Ferdinando II, troppo duro per essere affrontato, a cui succedette quel bischero di Franceschiello;
  2. l’isolamento politico e militare del Regno delle Due Sicilie.

Ferdinando II è morto ad appena 49 anni, per una cosa che se fosse stato meno testardo avrebbe potuto risolvere con una semplice operazione chirurgica di routine (svuotamento pus) e governare per almeno altri 20 anni.

L’isolamento politico non era obbligatorio e Ferdinando II, temendo il peggio, avrebbe potuto romperlo prima e salvare tutto. Se è necessario, vista la questione del monopolio dello zolfo e del controllo mercantile del Mediterrano, imporre una situazione di continua tensione con l’Inghilterra, non c’è però nessuna valida ragione per impedire a Ferdinando II di avvicinarsi all’Austria. l’Austria ha per nemici Francia e Piemonte e si trova piuttosto isolata a livello internazionale grazie anche alla concorrenza della Prussia che vuole prendere le redini del mondo tedesco. Il Regno delle Due Sicilie ha per nemico naturale il Piemonte. Non vi sono motivi di attrito possibili tra i due regni: nello spezzare l’isolamento per avvicinarsi all’Austria c’è solo da guadagnare per entrambi.

Se al tempo della Guerra di Crimea, quando era chiaro che il Piemonte cercava consensi internazionali in funzione anti-austriaca, Ferdinando II avesse stipulato un patto difensivo con l’Austria avrebbe potuto ottenere anche un miglioramento dei suoi ufficiali (nell’ambito dei normali scambi di conoscenze e tattiche, come già si faceva all’epoca tra stati alleati). Con minori investimenti statali nelle industrie e nei “regali al popolo”, attirando però più capitali esteri grazie all’alleato illustre che dava ancora più garanzie di sopravvivenza in caso di conflitto (o di rivolte), Ferdinando II avrebbe potuto completare la modernizzazione dell’esercito e aggiornare la Marina Militare in vista di un eventuale attacco contro il Regno di Sardegna

Qui si può inserire un’idea vincente per risparmiare soldi: l’amico pacifista di Caselli, quello che lo invitò a non realizzare il siluro automatico, potrebbe essere un agente dei Borbone che ruba i progetti (o se li fa consegnare) e dota di questa tremenda tecnologia la flotta “vecchiotta” dei Borbone. Quando correranno in soccorso dell’Austria nel 1859, lanciandosi a invadere la Liguria, né la flotta francese né quella inglese potranno resistere alle nuove armi! Se l’Austria non venisse sconfitta nel 1859 potrebbe ricambiare aiutando il Sud in caso di invasione piemontese.

Banditi decapitati e poi fotografati con la testa sul corpo. Accanto Palmieri, un capo dei “briganti”. Di fotografie trofeo con gente mutilata, decapitata, fucilata o denudata come queste ce ne sono decine. A nessuno vengono in mente le foto trofeo fatte dagli americani ad Abu Ghraib, in Iraq?

Ovviamente si può (si deve: non è solo Storia alternativa, è Steampunk!) rendere il tutto retrofuturistico: Piemonte, Austria, Due Sicilie ecc… avranno tutte vari elementi supertecnologici che le rendono diverse dalle nazioni del vero 1859. L’Unità d’Italia potrebbe proseguire anni dopo sotto forma di “Federazione” alla pari, come si immaginava al tempo degli Accordi di Plombières, seguita poi da un’unione dinastica per formare un solo Regno d’Italia dei Savoia-Borbone.

Mantenendo intatto il suo modello simil-socialista protezionista per tutto il tempo necessario a diventare un serio competitore internazionale, il Sud essendo più ricco e avanzato finirebbe nel corso degli anni (per il 1890-1900?) a diventare il vero dominatore e il Nord diventerebbe la vera Terronia con la gente che scappa verso Napoli e Cosenza, dove c’è più lavoro… ^_^

Il Duca di Baionette

Sono appassionato di storia, neuroscienze e storytelling. Per lavoro gestisco corsi, online e dal vivo, di scrittura creativa e progettazione delle storie. Dal 2006 mi occupo in modo costante di narrativa fantastica e tecniche di scrittura. Nel 2007 ho fondato Baionette Librarie e nel gennaio 2012 ho avviato AgenziaDuca.it per trovare bravi autori e aiutarli a migliorare con corsi di scrittura mirati. Dal 2014 sono ideatore e direttore editoriale della collana di narrativa fantastica Vaporteppa. Nel gennaio 2017 ho avviato un canale YouTube.

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