Oggi volevo dire due cose su Isaak Babel. È un autore russo molto famoso, magari non quanto Tolstoj o Dostoevskij o Gogol per le masse, ma è molto famoso. Non mi interessa però come “autore russo” o per le sue opere in generale, ma come autore che ha fatto delle affermazioni precise sulla scrittura per la narrativa.

Isaac_Babel
Isaak Emmanuilovich Babel
(Odessa, 13 luglio 1894 – Mosca, 27 gennaio 1940)
Isaak Babel era un ebreo nella Russia antisemita. La famiglia scampò per un pelo al pogrom del 1905, protetta da una famiglia cristiana, e Isaak riuscì a studiare e a diventare giornalista nonostante gli stretti vincoli posti all’ammissione scolastica degli ebrei.

Da giovane adorava Gustave Flaubert e Guy de Maupassant e per un anno lesse solo Lev Tolstoj, arrivando a dire che grazie a lui “aveva compreso le sublimi virtù della gente russa”. Detta da un ebreo che vive in mezzo a dei russi che ammazzavano i giudei non appena capitava l’occasione (non erano ben integrati come in Germania) e il resto del tempo li tenevano in un regime stile apartheid, è una frase che fa riflettere sul potere della letteratura: rende scemi. ^_^

Isaak combatté per anni al fianco dei rivoluzionari bolscevichi, fece il traduttore per il controspionaggio e partecipò alla Guerra Polacco-Bolscevica del 1919-1921 al fianco dei feroci cosacchi della Prima Armata a Cavallo del generale Budënnyj. E i cosacchi, Isaak lo sapeva bene, erano i più feroci antisemiti in un mondo di antisemiti.

All’esperienza della guerra in Polonia dedicò i racconti pubblicati nel 1924 e poi raccolti nel libro “L’Armata a Cavallo” del 1926. Racconti crudi, in cui la violenza contro gli ebrei dei territori invasi non ha colore politico: bianchi e rossi infieriscono allo stesso modo. Ma era il mondo della Russia comunista prima di Stalin, quando la Pravda poteva ancora definire “astro nascente della nostra letteratura” un autore così brutale nel rappresentare la realtà della Rivoluzione (ma anche all’epoca gli autori che avevano una visione più romantica lo osteggiarono).

Isaak Babel aveva un problema (a parte l’essere ebreo, russo e comunista): era uno di quei coglioni delle “regolette sulla scrittura”. E da alcune cose che diceva, sembra anche uno dei coglioni peggiori: peggiore di Orson Scott Card, peggiore di Flaubert, forse perfino peggiore di Strunk & White, l’anticristo degli Artisti che odiano le “regolette” e il suo allievo prediletto. Il peggiore dei peggiori. Vogliamo leggere un suo parere?

[…] before I take out all the rubbish, I break the text into shorter sentences. The more full stops the better. I’d like to have that passed into law. Not more than one idea and one image in one sentence. Never be afraid of full stops. […]
I take out all the participles and adverbs I can. Participles are heavy, angular, they destroy the rhythm. They grate like tanks going over rubble. Three participles to one sentence and you kill the language. All that “resenting,” “obtaining,” “concentrating,” and so on. Adverbs are lighter. They can even lend you wings in a way. But too many make the language spineless. […]
A noun needs only one adjective, the choicest. Only a genius can afford two adjectives to one noun.

Citato in “How Fiction Works” di Oakley Hall.

Frasi brevi. Evitare i participi. Limitarsi a un solo aggettivo per volta, il migliore. Non è proprio vero che bisogna essere dei geni per riuscire a metterne due, ma di certo è rischioso gestire più di un solo aggettivo per volta e precipitare nel ridicolo al terzo aggettivo è praticamente assicurato. Quattro aggettivi sono un pericolo anche per Joyce. Si può scrivere meglio evitando di fare gare di aggettivazione estrema e concentrandosi di più su nomi e verbi, no? Come diceva Le Carré: “Lasciate che i verbi facciano il lavoro”.

A proposito di James Joyce, che potremmo usare come “genio” capace di gestire più di un aggettivo per volta senza scadere nel ridicolo, Oakley Hall suggerisce questo brano:

The high cold empty gloomy rooms liberated me and I went from room to room singing. From the front window I saw my companions playing below in the street. Their cries reached me weakened and indistinct and, leaning my forehead against the cool glass, I looked over at the dark house where she lived.

Non mi piace molto come scrive, ma non mi sento offeso e preso per il culo da quel “high cold empty gloomy”. Ha una sua musicalità, un suo ritmo, una sua forza difficile da spiegare. Non mi fa impazzire, per cui lo sforzo titanico di mettere quattro aggettivi di seguito non riesco a percepirlo come “ripagato”, ma non prenderei a calci nei denti Joyce per questo (per altro forse sì, ma io non sono il suo pubblico ideale).

Nel libro di Oakley Hall potete trovare un altro esempio, tratto da “Il generale nel suo labirinto” di Márquez, in cui vengono indicati vari aggettivi che è bene tenere perché necessari al testo. Gli aggettivi e gli avverbi di modo non vanno tolti tutti, ma solo quelli superflui: nel caso degli aggettivi saranno gran parte e nel caso degli avverbi di modo saranno quasi tutti.
Vengono tolti perché superflui (“ciò che non aggiunge qualità al testo la sottrae”) e non “perché sì perché è fantasy”, come invece vorrebbero far credere gli ignoranti che disdegnano i manuali di scrittura per partito preso oppure i gegni che lo fanno per incapacità di comprensione e apprendimento (la volpe e l’uva della narrativa: non capisco una mazza di come si fa a scrivere quindi i manuali fanno schifo e li odio… LOL!).

Curioso che Isaak Babel fosse più avvelenato nei confronti degli aggettivi che degli avverbi di modo. Forse gli avverbi di modo in russo non hanno lo stesso suono disgustoso che hanno in spagnolo e in italiano (e in tono minore in inglese). Benissimo non dovevano suonare, visto che comunque li sconsiglia, ma qui dovrebbe intervenire qualche esperto di narrativa che conosce bene il russo per togliere i dubbi.

Un comunista ebreo russo della prima metà del Novecento può dare suggerimenti sulla narrativa poco diversi da quelli di un capitalista americano di oltre mezzo secolo dopo o di un professore di inglese suo contemporaneo o di un grande letterato francese di metà Ottocento: le buone idee non badano all’anno, alla razza e alla nazione.

Per farvi un’idea del suo stile riporto la traduzione in inglese distribuita da SovLit.com del racconto “La Morte di Dolgushov” tratto da “L’Armata a Cavallo”.
Ho evitato le due traduzioni in italiano che avevo letto perché, a parte eventuali problemi di copyright, le ho reputate inadeguate: quella di Renato Poggioli sembrava una cattiva traduzione dall’inglese (con tanto di He che regolarmente diventa Egli invece di essere omesso) e quella di Costantino Di Paola, questa forse davvero dal russo, non mi convinceva rispetto alla versione in inglese.
Non so quale versione sia più fedele all’originale russo, ma quella in inglese mi suona meglio anche se l’abbondanza di avverbi in “-ly” mi fa sospettare che pure questa traduzione sia di bassa qualità (e la seconda frase mi pare una schifezza illeggibile in tutte le versioni).

La Morte di Dolgushov
Testo in inglese fornito da:
SovLit

The curtains of battle were moving toward the city. At noon, Korochaev, in a black cloak, the disgraced commander of the fourth division, fighting alone and seeking out death, flew past us. On the run he shouted to me:

“Our communications links are broken! Radziwillow and Brody are in flames!”

And he galloped off, fluttering, all black, with eyes like coal.

On the plain, flat as a board, the brigades were repositioning themselves. The sun was rolling along in the crimson dust. The wounded, in ditches, were snacking. Nurses were lying on the grass and singing quietly. Afonka’s scouts were roaming the field, searching out the dead and uniforms. Afonka passed by within two feet of me. Without turning his head he said:

“They smacked us right in the face. Ain’t no doubt about it. They’re thinking of changing the divisional commander. The soldiers don’t trust him.”

The Poles came up to the forest three versts from us and set up their machine guns nearby. Bullets whine and scream. Their lament grows unendurably. Bullets wound the earth and dig into it, trembling with impatience. Vytyagaichenko, commander of the regiment, snoring in the sunshine, cried out in his sleep and woke up. He got on his horse and rode off to the lead squadron. His face was crumpled, in red streaks after his uncomfortable sleep, and his pockets were full of plums.

“Son of a bitch,” he said angrily and spit a seed out of his mouth. “What a hell of a mess. Timoshka, pull out the flag!”

“Shall we get going?” asked Timoshenko, taking the staff out of the stirrup and unfurling the banner, which had a star on it and some wording about the Third International.

“We’ll see what’s up there,” Vytyagaichenko said. Then he suddenly let out a wild yell: “Girls, to your horses! Squadron commanders, get your men together!”

The buglers sounded the alarm. The squadrons lined up in a column. A wounded soldier crawled up out of a ditch and, covering his face with the palm of his hand, said to Vytyagaichenko, “Taras Grigorevich, I’m a delegate. It looks like we’re going to be left behind.”

“Defend yourselves,” Vytyagaichenko mumbled and reared his horse up on its hind legs.

“We kind of have the idea, Taras Grigorevich, that we won’t be able to defend ourselves,” the wounded man called after him.

“Don’t whine,” Vytyagaichenko retorted. “It’s not like I’m gonna abandon you.” And he gave the order to get ready.

Just then, the whining, womanish voice of my friend Afonka Bida rang out. “Don’t go racing off, Taras Grigorevich. We’ve got six versts to cover. How you gonna fight if the horses are worn out? We’ll make it in plenty of time.”

“At a walk!”, commanded Vytaygaichenko, not raising his eyes.

The regiment set off.

“If I’m right about the Divisional Commander,” whispered Afonka, holding back, “if they replace him, things will start moving. Period.”

Tears flowed from his eyes. I stopped by Afonka in amazement. He spun around like a top, grabbed his cap, started to wheeze, let out a whoop, and galloped off.

Grishchuk with his idiotic tachanka cart and I stayed behind until evening, wandering around between the walls of fire. Divisional headquarters had disappeared. Other units wouldn’t take us in. The regiments entered Brody, and were beaten back by a counterattack. We went up to the city cemetery. A Polish scout jumped up from behind a grave and, shouldering his rifle, began to shoot at us. Grishchuk turned around. His tachanka squealed with all four wheels.

“Grishchuk!”, I shouted through the whistling and the wind.

“What nonsense,” he answered sadly.

“It’s the end of us,” I exclaimed, seized by a fatal panic. “It’s the end of us!”

“Why do women go through all the trouble?’ he answered even sadder. “Why all the proposals and marriages, and having fun at the weddings?”

A pink tail shined in the sky, then faded away. The Milky Way emerged through the stars.

“It makes me laugh,” said Grishchuk sorrowfully and pointed his whip at a man sitting on the side of the road. “It makes me laugh that women go to all that trouble.”

The man sitting on the road was Dolgushov, the telephone operator. Spreading out his legs, he stared at us.

“I’m done for, you see?” said Dolgushov as we approached. “We see”, answered Grishchuk, stopping the horses.

“You’ll have to waste a cartridge on me,” said Dolgushov.

He sat leaning against a tree. His boots were sticking out in different directions. Without lowering his eyes from my gaze, he carefully pulled back his shirt. His stomach had been ripped open, his intestines were hanging on his knees, and you could see the beating of his heart.

“The Poles’ll show up and have their fun. Here are my documents. Write my mother and tell her what happened.”

“No,” I answered and spurred on my horse.

Dolgushov laided his blue palms on the ground and looked at them distrustfully.

“You’re running away?” he muttered, sliding down. “You’re running, you louse.”

Sweat crawled down along my body. Machine guns tapped out faster and faster with hysterical insistence. Framed in the nimbus of the sunset, Afonka Bida galloped up to us.

“We’re really giving it to them,” he shouted out happily. “What’s all the hub-bub here?”

I pointed out Dolgushov to him and rode away.

They spoke briefly. I didn’t hear their words. Dolgushov held his papers out to the platoon commander. Afonka hid the papers in his boot and shot Dolgushov in the mouth.

“Afonka,” I said, riding up to the Cossack with a pitiful smile, “I just couldn’t”.

“Go away,” he said, growing pale. “I’ll kill you. You guys in glasses have as much pity for our boys as a cat does for a mouse.” And he cocked his rifle.

I rode away at a walk, not turning around, feeling cold and death at my back.

“Bona,” Grishchuk shouted out behind me, “stop fooling around.” And he grabbed Afonka by the arm.

“The goddamn lackey,” shouted Afonka, “He’s not gonna get off that easy.”

Grishchuk caught up with me at the turn in the road. Afonka wasn’t there. He had ridden off in the opposite direction.

“You see, Grishchuk,” I said, “today I lost my Afonka, my best friend.”

Grishchuk pulled a shriveled apple out from underneath his seat.

“Eat,” he told me. “Please, eat.”

Isaac Babel (1933)
“Solo nel 1923 imparai come esprimere i miei pensieri in modo chiaro
e non troppo prolisso. Quindi tornai a scrivere.”

(Isaak Babel)

Sarà il caso di imitarlo? Prima studiate e trovate qualcosa per cui valga la pena scrivere (nel suo caso la guerra, su cui si era ben informato di persona) e solo dopo riprendete a scrivere. Magari evitando di scrivere per settimane la storia di due cinesi in un bordello (1919) o scopiazzare racconti dalle memorie di un ufficiale francese (1920): o farlo giusto come esercizio di scrittura mentre si trova il “proprio stile”, senza pensare subito di poter iniziare con la “grande opera di una vita”. Ma forse l’italiano medio si sente migliore di Isaak Babel, un miserabile ebreo comunista, vero? ^_^

Lieto fine per quelli che odiano le “regolette” (e gli ebrei): nel 1940 Stalin fece fucilare Babel senza alcun motivo ragionevole a parte un “perché sì, perché sono le purghe”. Forse anche baffone non amava le regolette di scrittura: siete in buona compagnia. ^_^

22 Replies to “Isaak Babel, le frasi brevi e il singolo aggettivo”

  1. Bel tipo questo Babel. Pensa un po’, novant’anni fa (e anche prima) per molti le cose erano già chiare, e qui tocca ancora starne a discutere.

    Faccio notare una cosa sugli avverbi in -mente che mi pare nessuno ancora abbia detto: oltre a fare schifo di per sé, nove volte su dieci sono sempre i soliti quattro. Lentamente, velocemente, leggermente, completamente. Centinaia di pagine dove si ripetono sempre le stesse quattro parole in -mente anche nove o dieci volte per pagina sono una valida alternativa alla lavanda gastrica per provocare il vomito. Per chi ama andare per funghi ma scambia sovente l’Amanita Muscaria (velenosa) per la Caesarea (ovulo buono), potrei consigliare le opere di un’autrice fantasy pubblicata da una casa editrice che amo moltissimo, ma poi sembra che ce l’ho con lei. Piuttosto, compratevi un bel libro dei funghi.

  2. Sulla faccenda degli aggettivi, il post cade a proposito (pensavo di tornarci domani). Perchè se è vero che gli avverbi di modo sono la prima cosa da eliminare, gli aggettivi sono la seconda, e la più insidiosa.
    Quanto alle frasi brevi,sottolineo, copio, incollo e incornicio. E sventolo sul nasino di coloro che di Esbat hanno scritto: “Sono una fan di Umberto Eco e Victor Hugo, amo i periodi lunghi e contorti, per questo non sono riuscita ad apprezzare un periodare così frammentato e frasi così brevi”. Grazie Duca.

  3. Ricordo che, nel mio corso di scrittura creativa, il tipo che teneva il laboratorio ci faceva togliere, nei nostri racconti e per esercizio, TUTTI gli avverbi e ci faceva contare gli aggettivi per poi eliminarne la metà esatta. Questo per dire come queste “regole” siano ben note a buona parte di coloro che si occupano di narrativa qui in Italia. Narrativa NON fantasy, purtroppo.
    A ogni modo, consiglio a tutti di provare questo esercizio. E’ impressionante come migliora il testo, sul serio.

  4. Bel tipo questo Babel. Pensa un po’, novant’anni fa (e anche prima) per molti le cose erano già chiare, e qui tocca ancora starne a discutere.

    E forse sarà così ancora tra cinquanta o cento anni. O per sempre. In fondo non sapere niente di scrittura e sbraitare contro le “regolette” non è qualcosa che si possa guarire senza un radicale cambio di mentalità.

    una casa editrice che amo moltissimo, ma poi sembra che ce l’ho con lei

    Così a occhio e croce direi che è un libro dalla copertina molto bella.

    Quanto alle frasi brevi,sottolineo, copio, incollo e incornicio.

    Frasi brevi sì, senza l’eccesso però di far apparire il testo sempre “concitato”, e senza cadere nel facile errore della “scrittura troppo breve” (ovvero che dice meno di quanto dovrebbe dire).
    Prendiamo il racconto di Babel, che è decente, ma non è bello (è cronaca da giornalista, o quasi): si capisce quel che succede, ma è troppo scarno per facilitare la lettura di chi non fosse in grado di raffigurarsi bene le immagini perché conosce già l’argomento. Se uno non sa come vestivano, di certo non lo capisce qui. Potrebbero pure essere tutti agghindati da pulcinella e i fucili essere doppiette. Ma Babel dà per scontato che uno sappia, perché lo scrive come giornalista proprio pochi anni dopo gli avvenimenti, come è fatto il mondo “attuale” (e anche che sappia come è la guerra che descrive… insomma dà troppe cose per scontate, almeno da quanto si vede qui, e fa troppo il giornalista e poco il narratore).

    L’azione stessa ha troppe poche frasi, il che può rendere difficile la lettura ai minus habens che alla minima difficoltà interpretativa (per colpa propria) di un avvenimento, potrebbero pensare (magari per spirito di imitazione dei criticoni) che l’errore grave sia oggettivo.

    Se il testo fosse più ricco dal punto di vista sensoriale (e quindi con più frasi e più materiale percepito dagli occhi del protagonista, e un pov più precisamente ancorato secondo la pratica moderna consigliata), il lettore un po’ duro di comprendonio difficilmente avrebbe difficoltà a capire bene gli eventi e a raffigurarsi i polacchi che spuntano con le mitragliatrici e iniziano a tempestare di proiettili i bolscevichi.
    Per migliorarlo andrebbe riscritto con un approccio diverso (conservando comunque i principi di Babel esposti nella citazione a inizio articolo, che era quello che mi interessava).

    È lo stesso problema che ha Swanwick in “Cuore d’Acciaio” quando nelle scene d’azione, pensando di essere molto intelligente, riduce al minimo le frasi causando confusione nel lettore che deve ricordare ogni parola e completare a logica per capire gli eventi.
    Ed è un errore che tanti novellini, magari credendosi grandi geni narrativi, fanno.

  5. A ogni modo, consiglio a tutti di provare questo esercizio. E’ impressionante come migliora il testo, sul serio.

    È un ottimo suggerimento.
    Chi lo applica deve avere quel minimo di autocritica per poter vedere il miglioramento (c’è gente capace di migliorare il testo e poi sbuffare, per partito preso, che invece lo ha peggiorato… LOL!), ma direi che nella maggior parte delle persone la percezione del “cambiamento in meglio” dovrebbe attecchire a sufficienza per far loro dubitare che una sola parola necessiti sempre di sette aggettivi. ^__^

  6. Bell’articolo Duca^^

    A riguardo degli avverbi il vechcio Re diceva:

    L’altro consiglio che desidero darvi prima di passare al prossimo vassoio della nostra cassetta è questo: l’avverbio non è vostro amico.
    Gli avverbi, come ricorderete di aver appreso nella vostra versione del corso di «Business English», sono parole che modificano verbi, aggettivi o altri avverbi. Sono quelli che di solito finiscono in -ly [-mente]. Gli avverbi, come la forma passiva, devono essere un’invenzione dello scrittore timido. Usando la forma passiva, lo scrittore esprime normalmente la paura di non essere preso sul serio; è la voce dei maschietti che si fanno i baffi con il lucido da scarpe e delle
    bambine che marciano per casa sui tacchi alti di mamma. Con gli avverbi lo scrittore ci dice che ha paura di non essere abbastanza chiaro, di non trasmettere nel modo migliore il concetto o l’immagine.
    Consideriamo la frase:

    Chiuse la porta saldamente.

    Niente di terribile, intendiamoci (almeno il verbo è nella sua forma attiva), ma chiedetevi se «saldamente» è proprio indispensabile. Potreste obiettare che esprime una via di mezzo tra «Chiuse la porta» e «Sbarrò la porta», e non sarò certo io a contraddirvi… ma come la mettiamo con il contesto? Dove è andata a finire tutta quella prosa così espressiva (per non dire emotivamente evocativa) che veniva prima di «Chiuse la porta saldamente»? Non dovrebbe bastarci tutto questo a spiegarci in
    che modo chiuse la porta? E se la prosa precedente ce lo ha fatto intuire, quel «saldamente» non è una parola in più? Non è pleonastica?
    Qualcuno ora mi sta certamente accusando di essere noioso e bacchettone.
    Smentisco. Io credo che la via per l’inferno sia lastricata di avverbi e sono pronto a salire sui tetti per gridarlo a tutti.

  7. Sì, gli avverbi di modo in russo suonano meno peggio di quelli in italiano. Almeno… a me pare proprio così ;-)

  8. A prescindere da una questione di sonorità, l’avverbio sarebbe bene limitarlo il più possibile proprio per quanto detto da King e compagnia bella: il più delle volte è pleonastico.

  9. A proposito di stile di scrittura, vorrei chiedervi un parere. Dibattevo con un mio amico di un autore di una cinquantina di anni fa, che i detrattori definiscono come un vero e proprio “macellaio” della narrativa.
    Eppure a me e a tanti altri il suo stile, per quanto rozzo, appare incredibilmente epico ed evocativo, tanto che, qualora mai dovessi iniziare a scrivere, mi piacerebbe ispirarmici.
    Vi faccio qualche esempio per sapere cosa ne pensate. Mi scuso se allungo il post, ma purtroppo non c’è una funzione spoiler.

    Arrivavano. Sicuri della vittoria. Abbiamo riconosciuto il rumore dei carri con i cingoli, che annunciava la morte. In fitti sciami avanzavano dondolandosi nella nebbia. I loro musi si tuffavano nelle buche delle granate per risalire poi verticalmente. I cingoli ondeggianti schiacciavano i morti e i feriti. Arrivavano, con tutti i portelli aperti, in piedi nelle torrette, a cercare la loro preda attraverso il fumo giallastro.
    Fanti che urlavano, gettando le armi in segno di resa, furono schiacciati.
    I capicarro ridevano.
    « Go to hell, Kraut, here we are with the Shermans! »
    Tirarono una raffica, una tempesta di fuoco. Spazzarono la zona con le loro mitragliatrici. I lanciafiamme vomitarono su una compagnia di granatieri che si stringevano, paralizzati, contro una roccia.
    Ma avevano dimenticato i soldati dei carri che si battevano con la fanteria. I loro cingoli non ci impressionavano. Sapevamo come affrontarli.
    Heide tirò fuori la mitragliatrice leggera, verificò la mira.
    Prendevamo le bombe a mano, strappandone la sicurezza con i denti.
    Erano vicinissimi, i mostri d’acciaio. Un odio feroce ci bruciava. Volevamo vendicarci delle loro migliaia di bombe.
    Fratellino si mise a correre, con le granate sotto ogni braccio. Nella destra aveva una mina T. Si fermò davanti a uno Sherman e lanciò la mina, che passò vicinissima alla faccia del giovane comandante nella torretta. Un’esplosione assordante. Il comandante fu proiettato in aria.
    Il pesante veicolo si rovesciò. I cingoli continuavano a girare, nel vuoto.
    Fratellino era già passato a quello che seguiva. Porta era aggrappato al cannone di un altro. Infilò due bombe a mano nella gola dell’ordigno, poi si lasciò ricadere. Il carro armato gli passò sopra, ma Porta sapeva come distendersi contro terra. Si rialzò senza un graffio.
    Heide prese posizione fra i cingoli di un carro bruciato e ci coprì con la sua mitragliatrice.
    Gli americani si fermarono. Non capivano che cosa stesse succedendo. I loro carri si consumavano uno dopo l’altro.
    « Allah-el-akbar! » Il grido di guerra del piccolo legionario lacerò l’aria. « Vive la Legion! » Tirò fuori un capocarro dal portello della torretta e collocò le sue granate.
    Io mi impadronii di una mina T e mi gettai sullo Sherman più vicino. La mina restò impigliata nei cingoli. Lo spostamento d’aria mi proiettò su un carro in fiamme, dove c’erano due corpi calcinati. In piedi, a quello dopo! Nuova mina.
    Poi i combattimenti individuali. Un ammazzare selvaggio, carico di odio.
    Una torretta cadde in mezzo a noi; la metà del suo comandante era restata nella botola; il cannone girò! Altre briciole umane.
    Si fece avanti Mike, una pistola in una mano e una sciabola da samurai nell’altra.
    « Dietro di me, serrate », urlò.
    Paracadutisti, fanti, granatieri, artiglieri, infermieri e un cappellano seguivano un ufficiale che sacramentava brandendo la sua sciabola da samurai sopra la testa.
    Il piccolo legionario, Porta e Fratellino si lanciarono. Il Verro è in mezzo a loro, a testa nuda. Ha perso l’elmetto e deve essere stato colpito da pazzia, perché si batte come un leone. Armato di uno dei nuovi mitra inglesi con una baionetta sulla cima, spara su tutto quel che incontra.

    […]

    Un tenente ferito a morte entrò incepiscando, poi si afflosciò a terra. Prima di spirare ebbe il tempo di balbettare:
    « Signor generale, la Quarta compagnia è annientata. I combattimenti continuano ».
    Il Guercio afferrò per il collo il tenente morto:
    « Rispondimi prima di morire! Chi si batte? »
    Ma la testa del tenente si rovesciò priva di vita. Il sangue schizzava sul Guercio, che lasciò cadere il cadavere di un ragazzino di appena diciotto anni.
    « Dovrebbe essere proibito morire in queste condizioni », sbraitò.
    Dappertutto regnava lo stesso disordine. Gli americani e i neozelandesi erano al comando del generale Freyberg, il più ostinato dei generali che abbiano mai portato l’uniforme kaki. Ai suoi ordini l’abbazia fu demolita fino all’ultima pietra. Voleva la sua Verdun, l’ebbe!
    Quando gli parlarono della resistenza che avevano incontrato i suoi carri e i suoi granatieri corazzati, gettò per terra l’elmetto.
    «Impossibile!» urlò. «Non c’è più niente lassù. Avete delle allucinazioni, vedete dei fantasmi! »
    Ma i fantasmi erano armati di mitragliatrici e di lanciafiamme. Altri reggimenti vennero mandati all’assalto a morire davanti ai lembi delle mura dell’abbazia.
    Carri armati inglesi salivano dondolandosi. Fanti scozzesi erano appesi alle botole come grappoli d’uva. Il fuoco di una mitragliatrice li spazzò via.
    Il generale Freyberg giurò sulla Bibbia che avrebbe preso l’abbazia. A qualunque costo.
    Si formavano altre unità. Scozzesi, gallesi, texani, australiani, montanari marocchini, indiani, negri del Congo, nippo-americani. In testa marciava una divisione polacca.
    Piangevano, urlavano, imprecavano. Cadevano sotto il tiro delle mitragliatrici. Non esistevano posizioni, e tuttavia ci si batteva.
    I carri armati si impantanavano. Le loro fotografie aeree non servivano più a niente. La loro artiglieria aveva trasformato tutto.

    […]

    Gli Alleati attaccavano. In testa i polacchi, i cacciatori dei Carpazi.
    « Per Varsavia », gridavano.
    Ci siamo ritirati fino all’abbazia. Ci siamo nascosti nelle buche. I primi soldati in kaki apparvero e furono falciati. Cadaveri, cadaveri, montagne di cadaveri.
    Gli uomini morivano, mentre i generali ammiravano lo spettacolo fantastico.
    « Formidabile », mormorò Alexander. « Meraviglioso », gridò Freyberg. « Splendido », esultò Kesselring. Incidevano le parole che avrebbero riempito le pagine bianche delle loro memorie. Il sogno di ogni grande generale. Il punto finale della giornata di lavoro degli esperti in materia di guerra.
    Un tenente polacco, che sanguinava da parecchie ferite, si rialzò e urlò ai venti uomini che rimanevano del suo reggimento:
    « Avanti, soldati, viva la Santa Polonia! » Aveva annodata attorno al collo la bandiera polacca.
    « Il mio cuore è con te », mormorò il piccolo legionario prendendolo di mira. « Tu sarai messo alla destra di Allah, bravo polacco. » Vuotò il caricatore nel ventre dell’ufficiale.
    Poi vennero i gurka; morirono nel fuoco delle mitragliatrici.
    I marocchini tagliavano le orecchie dei loro nemici uccisi, per provare quanti ne avevano ammazzati, una volta ritornati a casa.
    Il piccolo legionario giubilò quando li vide e lanciò il suo grido di guerra.
    « Ammazzateli », urlò ridendo pazzamente. « Avanti, avanti! Vive la Legion! »
    Lo seguimmo, come l’avevamo seguito tanto spesso in passato. Il Guercio volle fermarci; era una pazzia. Sparavamo con l’arma all’altezza del fianco. Ricaricavamo correndo.
    I marocchini ci guardarono a bocca aperta. Eravamo già addosso a loro, colpivamo con le vanghe e i calci dei fucili. Fratellino ne gettò una dozzina giù dalle rocce.
    Marocchini e gurka corsero a mettersi al riparo.
    Quando fu buio, agli ordini del piccolo legionario, uscimmo in pattuglia. In silenzio tagliammo loro la gola.

    […]

    Il capitano fissò il giovane tenente. Un lieve sorriso gli apparve al’angolo della bocca:
    « Lei ucciderebbe sua madre se il suo comandante gliene desse l’ordine? »
    « Senza dubbio… E passerei sul suo corpo se si mettesse davanti al mio carro. »
    «Povero mondo!» mormorò l’universitario in uniforme da ufficiale, che immaginava che si potesse fare la guerra discutendo di Kant. « Lei, tenente, non è che un bambino diventato adulto troppo presto. » Si alzò, gettò la pistola e il berretto nel fossato e se ne andò diritto davanti a sé, solitario.
    Il piccolo legionario lo seguì con gli occhi e accese un’altra sigaretta a quella che aveva ancora in bocca.
    « Con quel dolce idiota ingenuo scompare una generazione. »
    Il tenente Frick sistemò la sua decorazione, ricevuta per aver distrutto un’unità di carri d’assalto russi.
    « Creda quel che vuole. Che crepi con le sue illusioni. Al ritorno noi faremo un bel rapporto, dicendo che lo abbiamo trovato, solo sopravvissuto al suo reparto, dietro un cannone. È troppo duro per i padri scoprire che i figli valgono più di loro. La pace sia con lui! »
    « Allah sa quel che fa! » disse il piccolo legionario.

    […]

    Una volta ancora, Mike lanciò uno sputo lungo e vigoroso di cicca che ricadde su una roccia, più lontano.
    « Quattro carri nel paese. I due primi lo attraversano. Sbarrare l’uscita. Tirare su tutto quel che si muove. Segnale rosso: si entra in ballo. Stella gialla: attaccare su tutta la linea. Otto carri di riserva. Non occorre un segnale di ripiegamento. O si liquidano i cow-boys, o si è liquidati da loro. Qualche domanda? »
    Porta fece un passo in avanti. Il comandante corrugò la fronte.
    « Joseph Porta, ti ammazzo seduta stante se mi prendi in giro. »
    Porta faceva il timido, si asciugava le mani nei calzoni.
    « Vorrei sapere, signor comandante, se una malattia di cuore dispensa dal picnic? »
    « Fuori dei piedi! Né una malattia di cuore né i coglioni al cartoccio. Altre domande? »
    Dall’ultima fila, Fratellino alzò un dito. Ci aspettavamo quasi di sentirlo chiedere: Signore, posso uscire?
    « Merda, che cosa c’è ancora? » grugnì Mike. « In ogni caso tu non capisci niente. »
    « Signor comandante, secondo il regolamento del 1925, quello del generale Blomberg, ogni soldato che abbia prestato servizio più di sette anni può essere dispensato dal partecipare al combattimento. Signor comandante, io ho prestato servizio per nove anni. Chiedo il permesso di svignarmela per la porta di servizio. » Fratellino stava per far vedere il suo libretto militare come pezza d’appoggio. Mike lo fermò con un gesto.
    « Anche se tu avessi fatto il militare per centonove anni, adesso vai a mettere il tuo grosso sedere sul sedile del tiratore, nel 523, e il regolamento del generale Blomberg, puoi adoperarlo per pulirtelo. Se ci sono altre domande, tenetele per Natale. »
    « Amen », mormorò Porta levando gli occhi al cielo.

  10. Per me è il solito cane che si morde la coda: gli avverbi vanno dosati, e siamo tutti d’accordo, ma guarda caso fanno sempre più orrore in quei brani che fanno pietà già a prescindere dagli avverbi. Lungi da me l’avverbiofilia, malattia perniciosa, ma non vorrei mai che focalizzando troppo l’attenzione gli scribacchini virgulti passassero le ore a togliere avverbi su avverbi tralasciando poi il resto. Fatta la precisazione, il suggerimento resta più che valido.

    @Duca: come fa il pubblico ad avere la certezza dell’omosessualità dei dinosauri? Non potrebbero essere una coppia etero?

  11. @Duca: come fa il pubblico ad avere la certezza dell’omosessualità dei dinosauri? Non potrebbero essere una coppia etero?

    Non penso. Le femmine hanno un fiocchetto rosa (se no come si riconoscono? Non si può sempre fare pat-pat). Lì non ne vedo.

  12. Since too many successive sentences of the same length can sound singsong, credible prose varies sentence length. Again, this is a matter of having control of the effect you want create. A short sentence following a series of long ones wil have punch and drama; make sure the sentence therefore is about something punchy. A long sentence following a series of short ones will require heightened attention from the reader; make sure the contest is worth it.
    […]the following paragraph, on the other hand, offer no variety in either sentence type (they’re all compound) or sentence length:

    It was nearly twelve o’clock and I was getting tired.I wanted to leave, but John was still playing pinball.I tugged on his sleeve, and he scowled at me. It was always like this: we did what he want

    The effect is monotonous and tiring.

    -Beginnings, middles and ends, Nancy Kress

    Il libro non è affatto male, ovviamente martella su aggettivazione e avverbizazione, come ogni fictionist che si rispetti. Però trovo interessante il discorso sulla lunghezza delle frasi variabile (invece di frasi corte uber alles, o sfrangimaroni di 2000 parole l’una) per dare enfasi. Ricorda molto il manuale di Will Eisner sul fumetto e su come usare la vignetta per dare respiro e ritmo alla storia (poi Eisner era anche pazzo, il 90% della storia era la vignetta in alcuni racconti)

  13. Quello era uno dei primi che avevo letto.
    Tempo fa lo consigliavo sempre assieme a “Plot” o come alternativa, oltre ai soliti tre di Gerrold e Scott Card per andare sul sicuro. Adesso dovrei rivedere la lista per decidere cosa consigliare dato che il numero di manuali si è gonfiato e non è sempre facile valutare in uno spazio di due anni di letture se A letto 18 mesi fa è meglio di B letto 3 mesi fa o di quello che sto leggendo ora. Magari me li rileggo tutti.

    Anche Babel in quel racconto, che non è certo perfetto ed è fin troppo sintetico, pur usando tantissimi punti alterna la lunghezza delle frasi, ma questo “a orecchio” è un concetto che tutti quando iniziano a scrivere dovrebbero aver già acquisito con la lettura o con il generico consiglio “se sembra un cantilena potrebbe non essere buona narrativa” (che copre ripetizioni inutili, sonorità sballate e ritmo da filastrocca).

  14. Bel post, e parole sante. Fatico a capire per quale motivo molti scrittori “di genere” si sentano in diritto non dico di trasgredire regoline di base, ma di non conoscerle e/o disprezzarle.

  15. Grazie al Duca per il suo articolo riguardo a uno dei miei scrittori strapreferiti. Tra l’altro sono meravigliosi anche i “Racconti di Odessa”, ambientati nel mondo della mafia ebraica.

    Su participi e avverbi per Babel, bisogna contestualizzare. I participi russi sono tremendi, di origine slavo-ecclesiastica, e non vengono mai utilizzati nella lingua parlata. E’ ovvio che un creatore di nuova prosa realistica come Babel’ li aborrisse. Gli avverbi russi sono di solito corti, più immediati.
    La prosa di Babel in russo è meravigliosa, sintetica e pirotecnica nello stesso tempo. Un grande maestro per tutti.

  16. http://www.youtube.com/watch?v=I5ulKQqJn3U

    dal minuto 4.44 Andrea DeCarlo. Il talento puro non esiste, è un insieme di varie cose e soprattutto di disciplina ed esercizio quotidiano E NON basta la capacità istintiva il “dono”

    Ora lo dicono anche i “grandi” scrittori. E finalmente posso anche citare una frase di gamberetta che condivido al 100% senza se e senza ma (e sapendo quanto sono cagacazzo è una cosa rara):

    Mito: Le regole sono fatte per essere infrante.
    È falso. Ma assumiamo sia vero. Per infrangerle le benedette regole occorre conoscerle. Per superare il limite di velocità bisogna sapere quale sia. A ottanta all’ora puoi essere il ribelle che infrange le regole, oppure puoi essere uno scemo superato da tutti. La differenza è conoscere quale sia il limite su quella strada.
    Così, se pure le regole della narrativa sono state ideate per essere stravolte, occorre prima di tutto conoscerle. Dunque bisogna leggere i manuali.

    Ed è una cosa che vale per ogni forma di scienza ed arte. Picasso sapeva disegnare in modo convenzionale, lo stesso Pollock e gli impressionisti. Bisogna conoscere e sapere applicare le regole che si infrangono per dare l’effetto desiderato. Se Escher non avesse conosciuto le regole prospettiche non avremmo mai avuto i suoi lavori

  17. Consiglio a tutti le lettura delle “Risposte ai Miti“, il box. In particolare ad alcuni miei lettori saltuari che leggono e non commentano quasi mai. Voi sapete chi siete e perché ve l’ho consigliato. E io so che consigliarvelo è inutile. Lo sapete anche voi. Io lo so per un motivo, e sono triste per voi, voi per un altro e sghignazzate sputacchiando la bava schiumosa della vostra umanità.

    Secoli di scrittori che hanno parlato di consigli per la scrittura non è servito a nulla e quindi non vedo come l’ennesimo tentativo di portare del buon senso usando le demoniache armi della Ragione (vade retro, lucifero dell’illuminismo!) possa servire.

    Le scimmie continueranno a lanciare cacca e a ridere, vivendo nel proprio personale sogno allucinato fatto di disprezzo e ipocrisia (e leccate di culo a gente che non ha nemmeno le possibilità per aiutarli: leccate i bersagli giusti, abbiate dignità!).
    L’evoluzione non è obbligatoria per nessuno e la giungla avrà sempre la sua scorta di primati urlanti: oggi come 100 anni fa e come tra 100 anni.

    Il funambolo è morto e lo hanno seppellito dentro a un tronco. Così parlò il Duca.

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