Performance dell’arco da guerra inglese

Questo articolo è dedicato all’arco lungo inglese, il longbow, l’arco da guerra del medioevo europeo per eccellenza, e si concentra sulle performance dell’arma piuttosto che sulla storia evolutiva. Non contiene lezioni di tiro con l’arco, né informazioni sul tiro sportivo (niente dettagli sugli ancoraggi nell’arco nudo o nell’arco olimpico o su come si mira: non sono cose che conosco abbastanza e non sono l’argomento dell’articolo!), né informazioni sugli archi compositi asiatici o sui moderni archi compound, né descrizioni dettagliate delle principali battaglie in cui gli archi lunghi hanno avuto un ruolo determinante e nemmeno parla del ruolo sociale dell’arco lungo.

Il testo di riferimento per questo articolo è The Great Warbow di Matthew Strickland e Robert Hardy. Ulteriori testi che val la pena citare sono The Medieval Archer di Jim Bradbury e English Longbowman (1330-1515) di Clive Bartlett. Per i test sulle armature, oltre ai dati forniti nel libro di Strickland e Hardy, ho usato anche i valori suggeriti da Alan Williams in The Knight and the Blast Furnace (il libro utilizzato per la mia serie di articoli sull’efficacia protettiva delle armature, ricordate?). Per la parte “fisica” ho utilizzato The Physics of Medieval Archery di Gareth Rees. Ci sono stati naturalmente anche altri articoli e brani tratti da libri meno interessanti di quelli sopra indicati, ma si è trattato solo di materiale confermativo che non merita di essere citato. Infine vi segnalo un interessante articolo in formato pdf sulla fisica dell’arco lungo, Longbow e Fisica Elementare, scritto da Dario D’Alù e Marco Dubini (è in italiano e contiene un maggior numero di informazioni rispetto a quello di Gareth Rees).

L’arco lungo, informazioni fisiche preliminari

L’arco è formato da due flettenti che vengono messi in tensione tirando la corda che li unisce. La corda è inserita nella cocca all’estremità di ogni flettente, mantenendo l’arco in leggera tensione (quando l’arco non è in uso per periodi prolungati la corda andrebbe tolta per permettere al legno di tornare in posizione di riposo). Quando la corda viene rilasciata i flettenti dell’arco tornano in posizione e la freccia agganciata alla corda viene inviata verso il bersaglio. Molto semplice, tanto che già nella preistoria si fabbricavano archi piatti (flat-bow in inglese: arco simile al longbow, ma più piatto e largo, meno spesso) e altri archi monolitici (self-bow in inglese: arco prodotto con un solo pezzo di materiale, corda e cocche escluse, come il longbow che è prodotto con una sola doga di legno). L’arco in sé è semplice, il problema è come ottenerne uno che sia il migliore possibile.

Un arco perfetto dovrebbe trasmettere alla freccia tutta l’energia immagazzinata nell’atto del tendere. Questo è l’obbiettivo “ideale” a cui tende il fabbricante, ma è impossibile conseguirlo dato che, non esistendo materiali inestensibili, sia il legno che la corda sprecheranno parte dell’energia messa dal tiratore. Quello che però il fabbricante può fare è trovare un’approssimazione il più vicina possibile alla perfezione, sfruttando i migliori materiali disponibili (come accade per gli archi degli olimpionici).

Più un arco è potente e più distante può lanciare le sue frecce e più pesanti possono essere le frecce che può lanciare alla stessa velocità. La potenza dell’arco (libbraggio, draw weight) è il peso trattenuto momentaneamente dall’arciere quando la corda è stata tirata fino al massimo allungo (draw length) permesso dalla lunghezza della freccia impiegata, subito prima di rilasciare la corda. Il libbraggio si misura tradizionalmente in libbre-forza (lbf), ma può essere convertito senza problemi in newton, l’unità di forza ufficiale del Sistema Internazionale: 1 lbf equivale a 4,448 N, ovvero 1 libbra convertita in kg e moltiplicata per l’accelerazione di gravità standard (9,8 m/s²).
L’allungo non dipende solo dalla lunghezza dell’asta della freccia, ma anche dalla conformazione corporea dell’arciere e dal punto di ancoraggio scelto, ovvero il punto verso cui l’arciere direzione la cocca della freccia inserita sulla corda quando tende l’arco. Il punto di ancoraggio può essere l’angolo della mandibola o l’orecchio o qualche altro punto famigliare sul collo o sulla testa.

Perché è tanto importante il libbraggio in un arco? Perché poter scagliare frecce più pesanti con la stessa velocità con cui un arco più debole ne lancia di più leggere, significa ottenere un vantaggio in termini di energia cinetica inviata sul bersaglio. Se vi ricordate l’energia cinetica cresce proporzionalmente con la massa e quadraticamente con la velocità. Poter inviare una freccia di massa 2M a velocità V con un arco più potente garantisce il doppio dell’energia cinetica di una freccia di massa M inviata a velocità V con l’arco più debole.
Questo è il vantaggio principale, soprattutto se l’arco, come avviene nell’ambito militare, deve aspettarsi di affrontare nemici in armatura contro cui 20 joule in più o in meno possono fare la differenza tra una buona ferita e un graffio.

Un arco ideale non è un arco che si apre senza sforzo per poi indurirsi di colpo negli ultimi centimetri di allungo, ma deve essere duro fin da principio e aumentare gradualmente lo sforzo richiesto di centimetro in centimetro. Un arco da 100 libbre a 30 pollici non dovrebbe averne 40 a 28 pollici (bam, improvvisamente diventa durissimo negli ultimi cinque centimetri), ma dovrebbe averne 93 circa (100*28/30). In tal modo la corda potrà accompagnare la freccia per tutta la lunghezza dell’allungo con una spinta uniforme, senza sbalzi.

L’arco deve essere non solo graduale, ma anche elastico per rilasciare nella freccia l’energia accumulata dai flettenti. Se quando si rilascia la freccia si sentono forti vibrazioni lungo tutto il corpo attraverso il braccio, allora l’arco è poco elastico: l’energia che doveva essere trasmessa alla freccia è invece finita in stress strutturali del legno e vibrazioni, procurando microfratture ai flettenti e una sensazione molto fastidiosa all’arciere. E lo spreco di energia in vibrazioni ha reso la freccia meno veloce e quindi meno letale.

Come è possibile far convivere archi monolitici più duri con il bisogno di elasticità e di gradualità? La soluzione degli inglesi fu di allungare l’arco. Un arco più lungo può avere lo stesso allungo con uno stress minore per il legno perché i flettenti sono costretti a piegarsi di meno. Un arco di successo è un arco che lavora poco. E quanto è lungo un longbow inglese? Più o meno come il proprietario, 170-180 cm, ma può anche essere maggiore. Il peso varia dal mezzo kg di un arco da 60 libbre al kg circa di uno da 150. Sulle lunghezze torneremo dopo, quando parleremo dei reperti estratti dalla Mary Rose, tutti di notevoli dimensioni.

L’arco, come visto, è una molla e come tale può essere descritto in termini fisici. Si può quindi analizzare partendo da concetti della meccanica classica quali la conservazione dell’energia e simili. Immaginiamo che l’arco sia una molla ideale semplice: in tal caso accumulerebbe energia potenziale proporzionale alla forza antagonista applicata e all’allungo. L’energia potenziale (Eid) sarebbe pari alla forza dell’arco all’allungo x (Fid) per l’allungo (x), diviso due.

L’arco però non è una molla perfetta. La forza necessaria per tenderlo non è direttamente proporzionale all’allungo, per quanto ci si avvicini, e da metà dell’allungo in poi interverrà un maggiore indurimento. Per calcolare l’energia accumulata dall’arco in funzione dell’allungo bisognerebbe introdurre gli integrali a complicare il discorso, per cui è meglio semplificare il tutto utilizzando un coefficiente d’efficienza “e” al loro posto per distinguere l’arco ideale da quello reale. Il coefficiente “e” negli archi di tasso (il legno usato di norma nei longbow) è circa 0,8-0,9 e diminuisce progressivamente con l’incremento dell’allungo.

Ma tutto questo discorso sulle molle a cosa serve? Semplice: a capire perché l’allungo è importante. Intuitivamente si può immaginare che un allungo maggiore, permettendo di spingere più a lungo la freccia, sia migliore di uno minore, ma ora avete anche la prova fisica grazie all’equazione dell’energia potenziale della molla. Se un arciere può tendere un arco fino a 150 libbre è meglio che scelga, tra due archi graduali, uno che vi arrivi dopo otto pollici o uno che vi arrivi dopo trenta pollici? Quello da trenta sarà migliore, perché la spinta durerà di più.
Questo concetto è fondamentale per capire come mai una balestra da 450 libbre che usi un tipico dardo da 10-12 pollici avrà prestazioni simili in termini di velocità del proiettile a quelle di un arco lungo da 120 libbre che impieghi una freccia militare con l’asta da 30 pollici. La balestra è molto più dura proprio perché, per mantenere le ridottissime dimensioni e la portabilità come arma da tiro, deve rinunciare all’allungo, ma non può permettersi di rinunciare alla forza di penetrazione dei suoi dardi che, anzi, sono spesso più pesanti e massicci di quelli degli archi (soprattutto nelle balestre da 700+ libbre a 8 pollici). Per raggiungere quei libbraggi mostruosi in ridotte dimensioni, perfino di 1200+ libbre nelle balestre da difesa usate negli assedi (bestioni di otto kg con caricamento a leve e carrucole), venivano usati spessi archi d’acciaio, meno elastici delle lunghe aste in legno di tasso.

Talvolta gli arcieri parlano di pollici-libbra (soprattutto quando fanno paragoni arco-balestra-moschetto), ovvero dichiarano la potenza del loro arco moltiplicando il libbraggio ottenuto a X pollici di allungo per gli X pollici stessi. Questo permette loro di fare valutazioni incrociate “spicciole” tra armi di differente libbraggio e differente allungo (come appunto un arco e una balestra).

Per ulteriori spiegazioni e per le formule matematiche sulla velocità d’uscita della freccia, il trasferimento dell’energia e la dissipazione vi rimando all’ottimo Longbow e Fisica Elementare di Dario D’Alù e Marco Dubini.

Gli archi della Mary Rose

Di archi da guerra inglesi originali non ce ne sono molti in giro, anzi, per dirla tutta prima che venissero ripescati dalla Mary Rose c’era ben poco di concreto su cui basarsi perché vi erano solo cinque longbow inglesi in “buono stato” che fossero stati sicuramente utilizzati in battaglia nel Basso Medioevo o nel Cinquecento. Quattro su cinque erano da 70-90 libbre e l’ultimo (che secondo i proprietari partecipò alla battaglia di Hedgeley Moor del 1464) era da 60 libbre, ma bisogna considerare che col passare dei secoli il legno si era deteriorato. Inoltre non era possibile dire con certezza che fossero proprio archi da guerra e non piuttosto archi meno potenti utilizzati per le esercitazioni.
Lo studio di Hardy e Strickland, volendosi basare su dati concreti, non può che partire dalle scoperte fatte dai ricercatori che hanno analizzato le decine di reperti recuperati dalla Mary Rose.

La Mary Rose: box storico

La Mary Rose era una caracca da battaglia inglese, costruita a Portsmouth nel 1509-1510. Il nome le venne da “Mary”, la sorella di Enrico VIII, e dalla rosa simbolo dei Tudor. La Mary Rose era una nave da 500 tonnellate, lunga quasi 39 metri e larga una dozzina, con un equipaggio di 200 marinai, 185 soldati e 30 artiglieri e armata con ben 78 cannoni.
Fu la nave ammiraglia prima di Sir Edward Howard e poi di Sir Thomas Howard. Era grande, potente, maestosa: l’orgoglio di Enrico VIII. Nel 1536 venne riattrezzata con 91 cannoni e un nuovo ponte. Il dislocamento complessivo passò da 500 a 700 tonnellate (+40%).

La Mary Rose come appariva nel 1545

Il 19 luglio 1545 la nave affondò durante la battaglia contro le flotta di invasione francese di Francesco I, scomparendo nelle acque sotto gli occhi dello stupefatto Enrico VIII che si godeva la battaglia navale dalla costa.
Probabilmente fu la perdita di stabilità dovuta alla maggiore altezza dell’opera morta (ovvero di ciò che sta sopra la linea di galleggiamento) a causarne l’affondamento: la nave sbandò per le brusche manovre di combattimento sul mare agitato e il ponte inferiore scese coi sabordi (le finestre quadrate da cui sparano i cannoni, aperte per via dei combattimenti) sotto il filo dell’acqua.
Si capovolse e colò a picco con tutto il suo contenuto: uomini, armi, cannoni, archi, bracciali di cuoio da arciere, armature… una disgrazia terribile per i 700 uomini a bordo (meno di 40 riuscirono a fuggire), ma un patrimonio storico immenso per noi, paragonabile solo a quello della nave svedese Vasa (1628).

Nella Mary Rose, secondo i documenti dell’epoca, vi erano 250 archi in legno di tasso (“bow of yew”), 864 corde (6 grosse) e 400 faretre di livery arrows (frecce standardizzate per uso militare, segnate con vernice verde secondo alcuni per indicare che erano proprietà del Re), per un totale di 9600 frecce.

Dal 1979, quando ripresero i lavori di recupero del relitto, vennero portate alla luce più di 3500 frecce e 137 archi lunghi, oltre ad attrezzature varie, cannoni e scheletri di arcieri in ottime condizioni. La lunghezza degli archi andava dai 6 ai 7 piedi (182-213 cm). Le frecce avevano lunghezze dell’asta tra i 24 e i 32 pollici, ma la maggioranza era lunga 30 pollici (76 cm). I legni impiegati nelle frecce erano pioppo, frassino, faggio e nocciolo, a differenza di quello degli archi recuperati che erano tutti in tasso (anche se altre navi del periodo indicano presenze limitate di longbow in nocciolo –John Baptist– o in olmo –Rose-). Aggiungendo la testa in metallo, lunga dai 5 ai 15 cm in base al tipo (meno 2-4,5 cm per l’inserimento dell’asta), si arriva a frecce con lunghezze complessive di 80-90 cm.

L’asta dell’arco era formata da una singola doga di legno lavorato, priva di decorazioni o fronzoli di qualsiasi tipo. L’impugnatura, visibile in molte rappresentazioni moderne, era del tutto assente: una semplice tacca per la freccia indicava il punto sotto cui afferrare l’arma. Il legno impiegato era il tasso perché è un legno compatto, ma non duro, con un’ottima elasticità e flessibilità, che si rompe in doghe regolari facilitando la lavorazione.

Si usava di preferenza uno spicchio longitudinale del tronco, così che l’arco finito avesse il dorso formato da alburno, legno esterno di formazione recente, e il ventre di durame, legno più vecchio che si trova all’interno del tronco: questo perché l’alburno è più flessibile ed elastico e il durame è più resistente alla compressione. I puntali, inseriti alle due estremità dell’arco per agganciare la corda nella loro cocca, erano in osso (corno di mucca). La corda era di norma in lino o canapa, ma era possibile usare anche altre fibre vegetali o pelle o tendini, come accade spesso con gli archi compositi asiatici (che talvolta usavano perfino la seta).

Le frecce militari, essendo prodotte in massa, non potevano soddisfare le esigenze dei singoli tiratori che in base all’altezza e alla costituzione fisica avevano allunghi tipici tra i 28 e i 33 pollici. L’arciere militare doveva adattarsi a un allungo di 30 pollici e scegliere di conseguenza il punto di ancoraggio. Gli archi della Mary Rose sono stati studiati partendo dal presupposto che avrebbero impiegato le frecce da 30 pollici in dotazione.

Gli archi recuperati dalla Mary Rose vennero testati per valutarne la potenza. L’arco MR1648 raggiunse un allungo di 30 pollici con una potenza di 60 libbre, ma non venne mai usato per lanciare davvero una freccia: il timore che lo stress del lancio spaccasse in due l’arco era eccessivo. Il legno, da come aveva reagito alle aperture, doveva essersi rovinato nel corso dei 400 anni trascorsi in fondo al mare. Vennero provati anche altri archi e molti non riuscirono ad aprirsi per più di 24 pollici di allungo, ma suggerirono una potenza media superiore a quella dell’arco 1648.

Gli archi vennero allora studiati al microscopio e si scoprì che, anche se all’apparenza erano in ottime condizioni, le cellule del legno si erano deteriorate gravemente. Non potendosi affidare solo a modelli matematici, troppo vaghi e incompleti, gli studiosi decisero di far fabbricare degli archi lunghi che imitassero il più fedelmente possibile quelli della Mary Rose per proporzioni, tipologia di legno ecc… in modo da risolvere la questione per via empirica. Gli archi vennero commissionati a Roy King.

Il professor John Levy dell’Imperial College of Science durante le prime misurazioni di MR1648

La Potenza del Longbow

Gli studiosi (e gli appassionati) si divisero in due fazioni: quella che ipotizzava archi con elevati libbraggi e quella che sosteneva libbraggi simili a quelli degli archi lunghi moderni impiegati, ad esempio, dagli appassionati inglesi che portano avanti da secoli la tradizione patriottica del tiro con l’arco.
La fazione degli archi deboli si rifaceva a uno studio pubblicato da W.F. Paterson sul Journal of the Society of Archer-Antiquaries in cui citava le stime matematiche del dottor David Clark secondo cui l’arco A812 (il primo recuperato dalla Mary Rose) aveva una potenza compresa tra 70 e 80 libbre. Il dottor Kooi lesse l’articolo e rimise in discussione il proprio modello matematico, ma non vi trovò errori e comunicò la cosa al professor Pratt che a sua volta contattò Clark. Il dottor Clark ricontrollò il proprio modello matematico e… ops, scoprì un errore di un fattore due nei suoi calcoli! Ora all’arco A812 veniva attribuita una potenza 153 libbre, leggermente superiore perfino alle stime di Kooi. Paterson, informato dell’errore di Clark, chiese alla rivista di pubblicare una errata nel numero successivo. La fazione degli archi deboli aveva perso l’unico modello matematico che desse loro ragione.

Le stime al computer del dottor Kooi, che avevano lasciati sbalorditi persino i sostenitori degli archi potenti, indicavano che gli archi della Mary Rose andavano dalle 110 alle 185 libbre, con la stragrande maggioranza degli archi tra le 150 e le 160 libbre. Dell’arco più potente, MR1607, si notò però che l’apertura completa a 30 pollici avrebbe potuto procurare dei danni al legno, per cui si calcolò che il suo uso sicuro era con un allungo di 28 pollici e una potenza conseguente di 172 libbre.
Gli studiosi erano un po’ scettici, dato che si aspettavano sì archi potenti, ma non così potenti: 100-120 libbre al massimo. Nel frattempo Roy King aveva completato i primi tre archi basati sui modelli della Mary Rose con potenze tra 102 e 135 libbre. Gli archi di approssimazione, conoscibili fino al più infimo dettaglio, vennero usati per rielaborare il modello al computer e produrre nuove stime più precise della potenza dei veri archi della Mary Rose. Gli altissimi libbraggi vennero confermati.

Roy King al lavoro su uno degli archi approssimati

Box: i libbraggi consigliati

Per capire meglio quanto i libbraggi dei longbow della Mary Rose fossero elevati è utile dare un’occhiata alla tabella con le potenze degli archi consigliati presa da un sito di tiro con l’arco americano. I libbraggi indicati sono per archi compound (con camme) che dopo aver raggiunto il picco hanno un peso realmente trattenuto in mano (valle) dall’arciere molto inferiore (40%-80% di riduzione del lavoro, “let-off”): considerateli quindi come libbraggi massimi per un arco monolitico oppure olimpico con cui diventerebbe difficile prendere la mira. In realtà un adulto quando è appena agli inizi e deve imparare perfino le basi si troverà archi scuola (archi ricurvi moderni o archi “olimpici”) da 20-25 libbre per il tiro indoor.

Stazza dell’arciere Libbraggio
Bambino piccolo (23-32 kg) 10-15
Bambino piccolo (32-45 kg) 15-25
Ragazzino (45-59 kg) 25-35
Donna minuta (45-59 kg) 25-35
Donna (59-72 kg) 35-45
Donnone (72 kg e oltre) 45-55
Ragazzo (59-68 kg) 40-50
Uomo minuto (55-68 kg) 45-55
Uomo (68-82 kg) 55-65
Omone (82 kg e oltre) 65-75

Un mio amico piuttosto alto e atletico usava archi da 70 libbre e, con fatica, perfino archi da 90 (senza poter prendere bene la mira). Mi aveva detto che forse sarebbe perfino riuscito a tirare con un arco da 100 libbre, ma ne dubitava, e di sicuro non sarebbe riuscito a prendere la mira in modo decente. Di certo un arco da 120, come i più leggeri presenti sulla Mary Rose, era del tutto al di fuori delle sue possibilità. I valori suggeriti sembrano avere senso.

Gli increduli, le frecce e gli scheletri

Nonostante le prove schiaccianti e la mancanza di ogni supporto matematico reale, nella comunità degli arcieri continuarono a esservi persone che contestavano i risultati degli studiosi e, in mancanza di prove scientifiche da presentare in risposta, risolvevano la questione definendoli “fantasiosi”, “sciocchi” e “chiaccheroni” (prattler, usato come gioco di parole sul nome del professor Pratt). Con gli anni gran parte dei critici si ricredettero, d’altronde la dimostrazione scientifica ed empirica era inattaccabile, ma alcune frange di ostinati negazionisti sono sopravvissute fino a oggi e, probabilmente, sopravviveranno sempre.

Molti non accettano il fatto che gli arcieri di epoca Tudor potessero essere in grado di tirare con precisione con archi molto più potenti di quelli impiegati dagli attuali appassionati. Questo nonostante esistano ancora oggi molte persone che, come Simon Stanley o Mark Stretton, sono capaci di maneggiare archi dai libbraggi molto elevati.

L’appassionato arciere inglese moderno è tanto orgoglioso della sua arma da non voler credere che il fisico dell’arciere sia un elemento fondamentale. E, essendo un po’ snob, trova disgustoso immaginare che gli arcieri medievali fossero più simili a muscolosi bruti con grandi mani callose che non a raffinati gentiluomini (che ovvove, un pvoletavio!). L’idea che la forza non sia fondamentale per usare l’arco da guerra non viene solo da pessimi videogiochi, brutti giochi di ruolo e scrittori fantasy ignoranti, ma ha una lunga e orgogliosa tradizione arcieristica che solo negli ultimi decenni sta venendo messa in crisi.

Simon Stanley che usa uno degli archi di Roy King: tiro ad alzo zero e con gittata massima. Stanley tira con lo stile medievale, usando tre dita (e non due) e spingendo la freccia sotto e dietro l’angolo della mandibola. Stanley può usare, con notevole sforzo, un arco da 190 libbre a 33 pollici e tira agevolmente con archi da 150 libbre.

Stanley, allenandosi con archi enormi, scoprì un’ulteriore prova a favore della grande potenza degli archi inglesi: le frecce del tipo e del peso che venivano impiegate nel medioevo non potevano essere tirate con efficacia se non impiegando archi di almeno 101 libbre. Inoltre le frecce più pesanti, da 3,5-4,5 once (100-120 grammi, comuni alla battaglia Agincourt) richiedevano archi da 143-165 libbre per essere utilizzate al meglio e volare fino a 220 metri. Proprio i libbraggi stimati per gli archi della Mary Rose.

Gli scheletri recuperati dalla Mary Rose vennero analizzati dalla patologa A.J. Stirland. Le ossa riportavano segni di malnutrizione nell’infanzia, ma considerando l’età media degli arcieri questo è facilmente spiegabile: gli anni venti del Cinquecento videro una serie di carestie, di cui la più grave fu quella dell’inverno 1527-1528. Allo stesso tempo la dottoressa Stirland fa notare come le ossa siano poi guarite molto bene e che gli arcieri della Mary Rose (affondata nel 1545) dovevano essere dei ragazzoni robusti e in perfetta salute.

Le ossa, ben conservate come gli archi, mostrano segni di una notevole muscolatura e di tendini molto forti e abituati al lavoro. Le scapole in particolare mostrano segni di notevole attività fisica (i muscoli dorsali sono fondamentali per tendere l’arco). Alcuni scheletri riportano danni alla vertebre, probabilmente dovuti all’uso di archi estremamente pesanti (l’uso dei muscoli lombari per guadagnare qualche centimetro in più è una pratica di cheating comune negli esercizi coi pesi).

Erano soldati alti, muscolosi e ben nutriti, veri e propri atleti della loro epoca. Un po’ come i granatieri o i corazzieri, che dovevano raggiungere precisi standard fisici (nel primo caso per poter lanciare a grande distanza le granate).


Ecco l’aspetto che poteva avere un arciere in grado di tendere, seppur con sforzo, un arco da 150 libbre. Non capisco perché tenga la schiena così arcuata. Boh! In ogni caso potete notare come non sembri né un gracile elfo né una ragazzina di 45 kg.


Nel video appare Mark Stretton. Non assomiglia molto a Legolas. Che sia lui a sbagliare o gli autori di fantasy con la fissa che per usare gli archi da guerra non serve la forza fisica?

E infine ecco una tipica elfa uscita da qualche fantasy ▼

come le ragazze intente alla difesa della città in “Gli Eroi del Crepuscolo” di Chiara Strazzulla o la Nihal de “Le Cronache del Mondo Emerso” di Licia Troisi. Secondo loro la forza fisica per usare l’arco da guerra non serve.

Prestazioni dell’arco e tipi di frecce

Come già detto all’inizio dell’articolo il principale vantaggio degli archi potenti è quello di poter inviare frecce più pesanti con la stessa velocità con cui armi più deboli ne mandano di più leggere, sfruttando così la maggiore massa di metallo e legno per infliggere danni maggiori al nemico. Frecce troppo leggere rispetto all’arco rischiano di spezzarsi al rilascio o di volare con traiettorie sballate. Un arco da 150 libbre non può impiegare frecce da 1-1,5 once senza rischiare di spezzarle, come una balestra da 740 libbre non può impiegare con efficacia un quadrello da 1,25 once (quello della balestra da 740 è un caso piuttosto famoso di pessimo esperimento comparativo con il longbow).

Ma quali erano le prestazioni dei tipici archi lunghi della Mary Rose da 150 libbre in termini di gittata e velocità? Strickland e Hardy ci offrono nel loro libro i dati dei test effettuati nel 2002 con cinque frecce, un longbow da 150 libbre a 32 pollici e un flatbow in fibra di vetro da 170 libbre. Le cinque frecce sono state impiegate tre volte ciascuna con l’arco lungo, per un totale di quindici tiri (numerati da 1 a 15), più due tiri supplementari con il flatbow (16 e 17). Il vento era di 9 m/s, favorevole.

La freccia più leggera era da 1,9 once (53,6 grammi), quella più pesante da 3,3 once (95,9 grammi) (le altre, che non tratto per esteso, erano da 2, 2,6 e 3 once). La testa della prima era di tipo “small bodkin”, ovvero larga meno dell’asta, lunga e molto appuntita. La testa della seconda era del tipo “large bodkin”, un po’ più simile della precedente alle teste da sfondamento dei quadrelli da balestra: tozza, pesante e appuntita.
Il diametro dell’asta della freccia da 1,9 once era di 10 mm, quello della freccia da 3,3 once era di 12,7 mm.

La freccia da 1,9 once nel tiro migliore (n° 1) ha raggiunto i 70,07 m/s, con una gittata di 328 metri (360 yarde). Nei due tiri successivi però ha fatto 64,29 (n° 6) e 64,65 m/s (n° 11), con gittate di 313,8 e 312,8 metri. Nel tiro con il flatbow ha raggiunto i 73,85 m/s e una gittata di 387,7 metri (425 yarde).
L’anomalia presente nei lanci 6 e 11 (il più lento va più lontano?) è imputabile a una piccola variazione della velocità del vento o a un angolo di tiro leggermente diverso.

La freccia da 3,3 once nel tiro migliore (n° 2) ha raggiunto i 249,9 metri, ma la velocità non è stata calcolata. Nei due lanci successivi aveva velocità di 53,36 m/s (n° 7) e di 52,28 m/s (n° 12), con gittate di 234,7 e 228,6 metri. Non è stata tirata con il flatbow.

Peso (g) Vel. Iniziale (m/s) En. Iniziale (J) Vel. Impatto (m/s) En. Impatto (J)
53,6 64,3 111 48,9 64,1
95,9 53,0 134 43,3 89,9

La freccia più leggera aveva all’impatto il 76% della velocità iniziale (e quindi il 58% dell’energia cinetica), mentre quella pesante l’82% (e il 67% dell’energia cinetica).

Quelle da 3,3 once non erano le frecce più pesanti sul campo di battaglia.
Hardy cita anche un tiro di prova con un freccia da 3,8 once lanciata da un arco da 150 libbre che raggiunse i 52 m/s (146 J). Alla battaglia di Agincourt del 1415 molte frecce impiegate si aggiravano attorno alle 4 once e questo, conoscendo la potenza degli archi lunghi inglesi, ha perfettamente senso.

Sono stati effettuati anche esperimenti dalla Vickers Defence System. John Waller provò archi da 72, 78 e 90 libbre a 28 pollici. Con una freccia di tipo 16 (vedi immagine delle frecce più sotto) del peso di 45 grammi ottenne una velocità iniziale di 44,5 m/s dall’arco di 90 libbre (miseri 44 J, sufficienti contro un bersaglio privo di armatura, ma del tutto inutili sul campo di battaglia).
Un altro test condotto prima degli studi sugli archi della Mary Rose vide l’impiego di un arco da 68 libbre che lanciò a 40,8 m/s una freccia di tipo bodkin da 70 grammi (solo 58 J contro i 146 ottenibili da un arco da 150 libbre con frecce da quasi 4 once: una enorme differenza).

Repliche moderne di frecce medievali. Dall’alto: quattro anti-armatura (la terza è una tipo 10 lunga, le altre sono bodkin squadrate), una leggera bodkin ad ago, una da caccia di grandi dimensioni, tre tipo 16 e un’altra da caccia.

Quali erano le frecce da guerra usate per penetrare (nei limiti del possibile, si intende) le armature? Di certo, come abbiamo visto, le più pesanti perché capaci di fornire molta più energia cinetica. Ma che forma aveva la loro testa? La pressione, quella che procura la rottura nell’armatura, è direttamente proporzionale alla forza e inversamente proporzionale alla superficie di impatto, quindi le frecce devono essere sia pesanti che aguzze e strette.
Questo ci permette di scartare le grandi frecce da caccia, con le ali larghe e affilate (vedi le tipo 13, 14 e 15). Rimangono le grandi bodkin (le più piccole, con lunghe teste ad ago aereodinamiche, sono di norma leggere e quindi utilizzate per i tiri più lunghi), quelle con teste simili a quadrelli da balestra e le tipo 16. Le tipo 16 (M4 nella più recente e sistematica classificazione di Oliver Jessop) possono essere di varie dimensioni e pesi, ma fondamentalmente sono piuttosto pesanti e vengono fabbricate appiattendo le ali della freccia in modo da ottenere una sorta di cuneo da sfondamento.

Gli storici non sono concordi su quali fossero le principali teste da sfondamento. Alcuni sostengono le punte a quadrello e le grandi bodkin, che anche dal punto di vista geometrico sembrano le migliori, altri le tipo 16. Di certo si sa solo che gli inglesi stessi distinguevano le frecce per fascia di qualità: nel 1419 le “frecce da prova” (per testare le armature) costavano 8 scellini la dozzina, mentre quelle ordinarie 4 scellini (prezzi decisamente più alti di quelli del Trecento, ma tant’è…). Vi sono vari riferimenti nel medioevo inglese alla qualità delle frecce e al problema di reperirne di buone, tanto che nel 1405 Enrico IV fece una legge contro i fabbricanti di frecce che producevano teste in metallo troppo soffice.

I test sulle punte di freccia hanno dato risultati compresi tra i 120 e i 400 VHN (durezza Vickers, per maggiori informazioni sulla metallurgia degli acciai al carbonio vedi questo articolo), con la grande maggioranza delle frecce molto dure, mediamente sui 350 VHN. Una recente ricerca della Royal Armouries condotta su un piccolo numero di frecce ha rilevato che le bodkin ad ago, come ci si aspettava (vista anche la leggerezza poco adatta a una freccia da sfondamento), non erano in acciaio indurito, ma ha anche mostrato che le tipo 16 erano quelle con gli acciai più duri (3 su 4) e che la maggior parte delle teste a quadrello/grandi bodkin era in morbido ferro (7 su 10).

Questi dati sono in disaccordo con quelli precedenti (vedesi Strickland e Hardy) che parevano indicare le grandi bodkin/quadrelli come le più dure e aguzze, mentre le tipo 16 sembravano essere fabbricate a partire da acciai di alta qualità e ricchi di carbonio (0,35%) ammorbiditi e rovinati dalla lavorazione fino a diventare acciai a basso contenuto di carbonio. Le tipo 16 hanno di sicuro un ottimo design da sfondamento, forse meno valido per causare un crack in una piastra di metallo (il design a quadrello è stato scelto per i penetratori ad alta densità nei proiettili Armor Piercing da fucile, ad esempio il M993 in 7,62×51), ma che a mio parere è geometricamente più adatto a investire gli anelli di maglia per tagliarli con le ali invece di limitarsi a spingerli fino alla rottura, come farebbe invece una grossa bodkin che non centri proprio in pieno l’anello.

Tagliare è meglio di spingere (e sfondare di punta è meglio di tagliare). La differenza nei pareri e nei ritrovamenti studiati nel tempo potrebbe dipendere anche dal periodo di impiego: teste massicce da quadrello da sfondamento per le piastre, in un ultimo tentativo di sconfiggere le nuove armature, e tipo 16 per le maglie di ferro. Non ne ho idea: sono pesanti e di design valido entrambe, in ogni caso. Restano escluse, come storicamente dimostrato, solo le fecce da caccia (pesanti, ma troppo larghe) e le bodkin lunghe e strette (ferro morbido, troppo leggere, buone solo per i tiri su lunga distanza iniziali).

Penetrazione delle armature

I migliori test con le frecce disponibili sono quelli di Alan Williams, volti a simulare frecce da guerra con punte da sfondamento forgiate in un acciaio molto duro per non deformarsi all’impatto. Per i test Alan Williams impiegò una Rosand IFW5 con montata una punta a quadrello, aguzza e di forma piramidale. Ne abbiamo già discusso qui, ma riporto i dati per completezza.

La freccia simulata ha iniziato a penetrare un foglio di acciaio morbido da 1 mm con 30 J e uno da 1,5 mm con 80 J. Ma se si vogliono ottenere anche 40 mm di penetrazione, ovvero una “ferita decente” tale da poter dire che l’armatura è stata sconfitta, l’energia aumenta rispettivamente a 55 J e a 110 J.

Tabella di Resistenza alle Frecce

1 mm 2 mm 3 mm 4 mm
Normale 55 J 175 J 300 J 475 J
Impatto 30° 66 J 210 J 360 J 570 J
Impatto 45° 78 J 250 J 425 J 670 J

I valori sopra indicati vanno moltiplicati per il coefficiente W di resistenza dell’acciaio considerato: 0,5 (ferro da munizione), 0,75 (acciaio con poco carbonio), 1,1 (acciaio a medio livello di carbonio) o 1,5-2 (acciai ben induriti).
Impatto normale indica un perfetto colpo perpendicolare. Impatto a 30° e 45° indicano le tipiche deviazione rispetto al colpo perfetto fornite da un’armatura a piastre arrotondata (comuni nel ‘400) e da un’armatura spigolata (del ‘500).
Vedi differenza ▼

Due cavalieri del XV-XVI secolo:
armatura arrotondata (a sinistra) e spigolata (a destra)

Le frecce usate nei test contro le piastre riportati qui sopra credo siano quelle con la punta da 40 gradi, da sfondamento (quella da 18-20 mm visibile in cima all’articolo), la cui parte più larga della testa -subito prima della punta- è più larga dell’asta (da 13-15 mm). Le frecce storiche potevano anche essere meno pesanti e meno larghe, 16 mm circa per quelle pesanti (con 20 mm immagino sia una bodkin pesante da 4-4,5 once), per cui l’energia necessaria per la completa penetrazione di 4 cm potrebbe essere meno grande di quanto stimato qui. Una via di mezzo, immagino, calcolata però solo sull’energia necessaria ad allargare il foro, non su quella per iniziare la frattura.

Prendo un esempio di Williams: contro il foglio da 1,9 mm di acciaio svedese di pessima qualità (W 0,6 circa), la punta di freccia da 40 gradi ha impiegato 80 J per causare un buco da 5 mm di diametro, mentre quella da 18 gradi 75 J. Non è una gran differenza. La differenza tra una freccia con la punta da 18 gradi e una con la punta da 40 è che magari la prima sarà larga quanto l’asta o meno (13-14 mm) mentre la seconda di più (16-20 mm) e quindi la seconda necessiterà di più energia per affondare la testa completamente. La seconda magari sarà una freccia pesante adatta per sfruttare al meglio gli archi potenti, 4-4,5 once per un arco da 150 libbre, mentre la prima sarà una freccia più leggera, 2-3 once, per i primi tiri a lunga distanza.

A occhio la mia stima è che se per iniziare la frattura servono 80 J a una e 75 J all’altra (W 0,6: immagino allora servano 130 J e 120 J contro dell’acciaio AISI 1010-1020) e per completare il buco da 40 mm servono 175 J, allora la bodkin aguzza da 18 gradi dovrebbe richiedere circa la metà dell’energia dell’altra per completare la penetrazione più l’energia per iniziarla: 140-145 J.

Anche una maglia di ferro è stata testata contro le frecce. Si tratta di un pezzo originale del XV secolo, 4-in-1, in acciaio a basso contenuto di carbonio indurito tramite tempra (forse 200 KJ/m2, ma con pezzi così piccoli non è possibile calcolare la resistenza), poggiato sopra una imbottitura di ben 26 strati di lino (un “jack” bello pesante). La punta di freccia in questo caso è indicata come una punta bodkin da 18 gradi (non penso sia una bodkin ad ago, credo sia solo una bodkin da sfondamento molto aguzza), quindi più aguzza delle punte da 40 gradi precedenti. La freccia con 120 J ha spezzato due anelli e ha penetrato completamente l’imbottitura (circa 80 J per spezzare gli anelli, 20 J per perforare il jack pesante e altri 20 J per causare 35 mm di ammaccatura nella plastilina sottostante).

La buff coat (protezione in cuoio spessa 5 mm) è stata perforata con 30 J. Del corno di spessore non specificato è stato penetrato con 50 J.

Ulteriori test meno dettagliati

Peter Jones condusse alcuni test di penetrazione alla Royal Armament Research and Development di Fort Halstead. Jones impiegò frecce di tipo bodkin, con le punte in ferro sottoposto a carburizzazione per indurirne la superficie (in pratica ferro morbido dentro e duro acciaio al carbonio fuori), contro fogli di ferro morbido (Victorian soft wrought iron) di vario spessore: 3 mm per simulare la porzione frontale dell’elmo, 2 mm per la corazza e 1 mm per braccia e gambe. Buone punte di freccia contro un metallo davvero schifoso.

Le frecce (di massa ignota) vennero tirate da John Waller con un arco di tasso da 70 libbre contro i fogli posti obliquamente per simulare l’angolo di impatto reale delle frecce in battaglia. Le frecce a 10 metri di distanza penetrarono il foglio da 1 mm per 4,5-5 cm. Una buona ferita alla gamba o al braccio, in grado di avere serie ripercussioni sulle possibilità di proseguire lo scontro. La piastra da 2 mm venne penetrata, ma solo di 1,1 cm, insufficienti per infliggere una ferita pericolosa al torace. Senza contare che i test non considerano una protezione imbottita al di sotto, come era normale nel ‘300 e nel ‘400. La piastra da 3 mm, per quanto fatta di un ferraccio ignobile, respinse tutte le frecce.

E infine il contributo di Giovanni del maggio scorso:

Personalmente ho fatto un test (prossimamente visibile in una serie di documentari televisivi sul Medioevo)usando una piastra di 1 m. x 1 m di ferro acciaioso di 1,5 mm (mild steel, W = 1 circa, nota del Duca). Essendo piatta non defletteva le frecce e quindi l’impatto e prendeva il colpo in pieno, nel contempo però la vibrazione causata dal colpo lo ammortizzava. I tiri da 30 m., più volte ripetuti, hanno dato questi risultati: freccia sfondagiaco lanciata da arco italiano da 60 lb., nessuna perforazione; stesse frecce con arco composito 60 lb., idem; arco longbow da 100 lb.,perforazione con fuoriuscita di circa 3 millimetri; balestra con arco in legno di circa 90 lb, nessuna perforazione;balestra con arco in acciaio da 150 lb., perforazione di circa 4 mm.; balestra pesante da 250 lb., perforazione di 5 mm.In pratica (considerando anche la sottostante imbottitura) nessuna ferita grave.

Le Armature ai tempi del Longbow

L’armatura più comune per i cavalieri al tempo di Crecy (1346) era la cotta di maglia con l’aggiunta di piastre in ferro (su gambe e braccia) e di una cotta di piastre sul torso. Armature lamellari e brigantine, sempre fabbricate con acciai di qualità non eccelsa, sono state rinvenute nelle fosse comuni della battaglia di Wisby (1361).

Una freccia per infliggere una buona ferita di 40 mm attraverso un’armatura lamellare spessa 2 mm in ferro avrà bisogno di circa 80-90 J. Questo è sicuramente nelle possibilità di un arco lungo da 150 libbre, perfino a 200 metri se impiega una freccia pesante (94 J). È invece del tutto impossibile per un arco da 70 libbre che scagli una freccia di 45 grammi (44 J): il nemico non si farebbe nemmeno un graffio.

Le protezioni su gambe e braccia erano spesse 1-1,5 mm, in ferro o acciai di dubbia qualità (W 0,5-0,75 massimo), sufficienti per fermare le lame in corpo in corpo, ma non le frecce pesanti scagliate dagli archi da 150 libbre. I cavalieri le impiegavano, nel caso delle braccia, sopra una cotta di maglia e relativa imbottitura: in tal caso solo una freccia molto pesante a bruciapelo (146 J) avrebbe avuto qualche possibilità di sfondare gli strati di protezione e infilzare il bersaglio.

Il discorso diventa un po’ diverso per il torso. La cotta di piastre in ferro spesso 2 mm, unita alla cotta di maglia e alla spessa imbottitura rendeva il cavaliere a prova di freccia: 180-200 J sono ben al di sopra delle possibilità di un arco lungo, ma non di una balestra molto pesante che impieghi dardi da cinque once o più (200-250 J).

Un cavaliere della fine del Duecento.
Notate le due cotte di piastre a destra. Non sono presenti piastre ulteriori per gambe e braccia al posto (o sopra) la maglia di ferro, come sarà invece comune al tempo di Crecy (1346).

Contro la tipica armatura milanese da cavaliere di primo Quattrocento, spessa 2 mm e in buon acciaio (W 1,1), servono 230 J per ottenere una buona ferita (senza considerare nel conto i 50 J extra circa per l’imbottitura sottostante o un’eventuale cotta di maglia a compensare un acciaio di minore qualità). Questo tipo di armatura a piastre, diffusa alla battaglia di Agincourt (1415), potrebbe resistere anche ai dardi della maggioranza delle balestre da guerra. Senza considerare che già a inizio Cinquecento gli spessori complessivi delle corazze si stavano avviando verso i 2,5-3 mm (a prova di archibugio, altro che di arco!).

L’armatura a piastre contribuì notevolmente al tramonto del longbow e alla sua sostituzione con armi da fuoco sempre più potenti e capaci di minacciarla. Oltre ai test, già sufficienti di per sé trattandosi di fisica, ci sono ulteriori prove che vengono dalle cronache del periodo a sostenere la teoria secondo cui l’arco lungo non era più un’arma adatta a contrastare nemici in armatura.

La battaglia di Flodden (1513) è considerata dagli studiosi l’ultima vittoria dell’arco lungo, ma questo non significa, come alcuni potrebbero pensare, che gli archi fossero ancora ottime armi in grado di penetrare le armature. Se si vanno a vedere i documenti dell’epoca si trovano testimonianze come queste:

[The front ranks of the Scots] were most assuredly harnesed abode the most dangerous shot of arrows, which sore them annoyed but yet except it hit them in some bare place, did them no hurt.
Fonte: un testimone degli eventi.

They were so well cased in armour that the arrows did them no harm, and were such large and stout men that one would not fall when four or five bills struck them.
Fonte: il vescovo Ruthal che scrive dieci giorni dopo la battaglia.

Gli scozzesi delle prime linee indossavano armature da munizione inviate dalla Germania proprio per armare la nuova fanteria pesante di Giacomo IV ispirata ai lanzichenecchi tedeschi. Queste armature prodotte in massa per quanto fatte con acciai di cattiva qualità (W pari a 0,75 per quelle di Norimberga) erano comunque sufficienti a rendere i fanti immuni alle frecce dei migliori arcieri d’Europa. A parte nei pochi punti in cui erano scoperti, come sottolinea la prima fonte, ma questo è lapalissiano. Il problema però era che la maggior parte degli altri scozzesi non indossava protezioni altrettanto valide e contro di loro l’arco lungo fece il solito macello.

Il Longbow nell’uso militare e altre informazioni

Il longbow è un’arma per l’uso in massa. Si, può essere usata con una certa precisione (non paragonabile a quella del fucile con canna rigata e inferiore anche a quella delle balestre), ma la vera forza dell’arco lungo è quella di poter inviare su lunghe distanze delle frecce pesanti in grado di conservare una buona quantità di energia cinetica grazie all’accelerazione ottenuta nella fase discendente della parabola. E quando si tira con un angolo di 45° gradi per colpire a 200-300 metri di distanza non si può certo “mirare agli occhi” o “nelle giunture meno protette”.
Gli arcieri tiravano in formazione, dietro protezioni formate da pali acuminati anti-cavalleria, oscurando il cielo con foreste di dardi mortali e massacrando gli sventurati privi di robuste armature. O anche i cavalli. A Crecy, ad esempio, i cavalieri francesi disponevano di armature più che adatte a resistere alle frecce inglesi, ma i cavalli no. Quando la cavalleria francese fu costretta a intervenire perché i balestrieri genovesi erano impotenti (le loro balestre composite e le corde erano ridotte a un livello di forza ridicolo a causa delle piogge precedenti che le avevano rovinate), si trovò a cavalcare in mezzo a un pantano sotto il tiro di migliaia di possenti arcieri inglesi.
Ma le cronache non ci riportano una carneficina di cavalieri quanto di cavalli. I poveri cavalieri dovettero rinunciare alla “carica frontale” e si ritirarono alla meglio, lasciando il campo (fangoso) ai fanti francesi che si ritrovarono ad affrontare prima la pioggia di frecce inglesi e poi i temibili uomini d’arme dotati di pesanti armi inastate e robuste armature. Seguì la rotta disordinata dei francesi, la cui cavalleria di riserva nemmeno provò a partecipare allo scontro, e il conseguente massacro.

Archers with strong and numerous volleys darkened the air… an intolerable multitude of piercing arrows, and inflicting wounds on the horses , either caused the French horsemen to fall to the ground , or forced them to retreat.”
Fonte: una cronaca del 1446 (100 anni dopo).

Conoscendo le armature impiegate dai francesi e i risultati dei test di penetrazione è perfettamente comprensibile come il principale danno causato dalle frecce non fosse sui cavalieri ben corazzati, ma sugli animali privi di bardature protettive. E senza cavalli non si fanno cariche di cavalleria. Lapalissiano.
Ciò che stupisce di più gli esperti non è tanto la forza degli arcieri inglesi quanto la logistica e l’addestramento: con il ritmo di tiro dell’arco (anche 10 frecce al minuto!) e la lunga durata delle battaglie, era necessario un fitto ricambio di faretre di frecce per evitare che gli arcieri si trovassero disarmati!
Oltre agli arcieri a piedi vi erano anche quelli a cavallo, che ricevevano uno stipendio maggiore. L’arciere a cavallo agiva un po’ come i dragoni del ‘600: si muoveva a cavallo, rapido come la cavalleria nel raggiungere il luogo dello scontro, ma smontava e combatteva come fanteria (e i cavalli impiegati infatti non erano animali adatti alla guerra).
Gli arcieri solitamente erano disposti ai lati della formazione, in posizione obliqua in modo da colpire di infilata le forze nemiche (come avviene con le batterie d’artiglieria nel ‘700), mentre il centro era lasciato agli uomini d’arme appiedati. D’altronde, in caso di corpo a corpo, solo la fanteria pesante poteva sostenere l’urto della cavalleria o della fanteria nemica mentre gli arcieri, poco corazzati e privi di armi ad asta, non sarebbero stati in grado di contrastare i nemici (gli arcieri borgognoni e francesi invece pare che fossero meglio equipaggiati per la mischia, con armature più pesanti e falcioni).


Tiro in massa e rapidità dell’arco. Notate la presa con tre dita.

Il tiro con tre dita

Il tiro medievale si faceva con tre dita (presa mediterranea) per sfruttare al massimo la forza fisica. Tirare con due dita (presa fiamminga) permette una presa meno solida e prestazioni inferiori (archi meno potenti) e anche se talvolta appare nei quadri e nei disegni d’epoca è ormai accertato che gli arcieri con l’arco da guerra pesante usassero tre dita -una sopra e due sotto la cocca- come accade nel moderno tiro col longbow. Magari ne usavano due con archi più leggeri, per il tiro al bersaglio, e questo può essere ciò che i pittori hanno visto: errori di questo tipo nelle raffigurazioni militari del passato sono molto comuni… francamente non lo so!

I muscoli più coinvolti sono i dorsali, il bicipite del braccio che tira la corda, il tricipite del braccio che trattiene l’arco (soprattutto nella spinta finale, quando si “entra dentro l’arco” con un annullamento di forze tra arco muscolare e arco di legno), la porzione posteriore dei deltoidi e, per inarcare la schiena, i lombari.

Notate, nei primi due video dell’articolo, la posizione di tiro laterale con il torso proiettato in avanti di Stretton e dell’altro energumeno. Smuovere in questa posizione 68 kg non è facile, per niente. Chi ha esperienza in palestra con il pulley al cavo basso per i dorsali o con la lat machine sa bene quanto siano pesanti 60-70 kg. Molte persone non superano i 40-50 kg. Io faccio a malapena 8 ripetizioni con 70 kg alla lat machine con presa frontale piuttosto stretta: non potrei mai aprire un arco da 150 libbre a 30 pollici!

Il prezzo degli archi

La produzione di archi richiedeva moltissimo legno di alta qualità. Enormi quantità di aste per archi venivano inviate alle armerie della Torre di Londra dal resto d’Europa. Grandi piantagioni di alberi di tasso, ordinatamente piantati e custoditi dalle guardie forestali per garantire una crescita perfetta del legno, erano comuni in Inghilterra. Tutt’ora rimangono i resti di alcune di queste piantagioni organizzate. Per capire il volume di vendite basta ricordare che Enrico VIII ottenne il permesso del Doge di Venezia per importare 40mila aste per archi nel solo 1510.

Gli archi non costavano molto, perfino meno delle spade. Nel 1536 Enrico VIII rinnovò la legislazione sul prezzo degli archi, per mantenerli simili a quelli del 1488 (in Europa si stava affacciando, grazie all’argento americano, un problema dimenticato dal tempo dell’Impero Romano: l’inflazione). Gli archi migliori dovevano costare 3s 4d (3 scellini e 4 denari: 12 denari fanno uno scellino e 20 scellini fanno una Lira, ovvero il valore di una libbra d’argento), quelli di seconda scelta 2s 6d e quelli di terza scelta 2s. Due dozzine di frecce per uso militare della qualità migliore doveva costare 2s 4d, mentre quelle normali 2s. Una faretra di cuoio costava 6d, una cintura 2d e mezza dozzina di corde per archi 3s 4d. Per fare un paragone con i prezzi di altre armi basta ricordare che una buona spada costava 6s e un’armatura milanese completa a metà ‘400 veniva 8L 6s 8d (166 scellini).
Alla fine, nel 1566, una nuova legge permise ai produttori di archi di aggiornare i prezzi tenendo maggiormente conto dell’inflazione (il prezzo delle aste di legno era passato nell’ultimo secolo da 2L a 12L al centinaio): ora gli archi fabbricati con il miglior legno di tasso straniero costavano 6s 8d. Poco più del prezzo di una normale spada per un arco di ottima qualità.

Per comprendere meglio il valore del denaro, ecco un po’ di prezzi inglesi della metà del Trecento (considerate che fino alla fine del Quattrocento l’inflazione è ininfluente e diventerà importante solo con il flusso di argento americano nei primi decenni del Cinquecento): un maiale (2-3s), una mucca (9s 5d), due polli (1d), due dozzine di uova (1d), frutta secca (1-4d la libbra), un’oca (6d), 36 kg di formaggio (3s 4d, dato del Duecento), un litro abbondante di buona birra (1d, dato di inizio Cinquecento), vino economico (3-4d al gallone, 4,5 litri), buon vino (8-10d al gallone), retta universitaria (2-10L l’anno), lezioni da un maestro di scherma (10s al mese, tardo Cinquecento).

Mirare al volto

Gli arcieri inglesi preferivano non rischiare di vedere la propria freccia deviata dalla corazza nemica per cui, quando effettuavano tiri ravvicinati, miravano al volto. Questa è un’ulteriore dimostrazione della resistenza delle armature del ‘300-‘400. Le cronache di tramandano un numero notevole di casi in cui nobili e cavalieri vennero uccisi da ferite di freccia nel volto. Il volto prima dell’invenzione del grande elmo completo era spesso scoperto visto che gli elmi conici proteggevano solo il cranio. Re Harold alla battaglia di Hasting del 1066 venne ucciso da una freccia vagante, probabilmente finita nella faccia. Sfortuna.

Geoffrey de Mandeville all’assedio di Burwell del 1144 rimosse l’elmo mentre si trovava a tiro degli arcieri di Re Stephen e venne colpito a morte nel cranio. Anche quando i grandi elmi divennero comuni continuarono ad esserci “frecce in faccia”, dato che i comandanti militari per dare meglio gli ordini (e i cavalieri per respirare meglio) tendevano ad alzare la celata quando non percepivano un pericolo immediato.

Il futuro Re Enrico V, quindicenne, si prese una freccia in faccia nel 1403 (ma sopravvisse e continuò a combattere nonostante il parere contrario dei suoi alleati), Enrico VI si godette una freccia nel collo nel 1455 a St. Albans e, per concludere con gli esempi più famosi di headshots, nel 1356 il lord francese di Castelsagrat fu ucciso da una freccia inglese che gli trapassò il cranio.

Punta di freccia, di discrete dimensioni, dentro un cranio proveniente dalla battaglia di Wisby del 1361. Le ossa del cranio sono molto dure e spesse. Dallo studio delle ferite si è scoperto che alcuni soldati pur avendo ricevuto due o tre frecce in faccia nelle prime fasi dello scontro continuarono a lottare: infatti sulle loro ossa si notano i segni di altre ferite mortali ottenute in corpo a corpo.

Gli Yeoman e l’arco lungo

Gli uomini che formavano i corpi di arcieri dei tre Edoardo, di Riccardo II, dei vari Enrico di Lancaster, di Edoardo VI e di Riccardo III erano tutti uomini che lavoravano la terra, in un modo o nell’altro. Erano uomini abituati al duro lavoro fisico, a sopravvivere a disagi di ogni tipo e a fare affidamento solo sul proprio corpo e non sulle macchine. Erano avvezzi a sopportare il freddo, le alluvioni e le malattie come anche a godere dei periodi di ricchezza e benessere che si alternavano nella vita dei contadini del passato. Il corpo di questi uomini era forgiato dalla Natura e ben selezionato dalla mortalità (sia infantile che degli adulti) che non lasciava scampo ai più deboli.

La dieta degli agricoltori del Quattrocento era più ricca di carne e cereali di quanto fosse quella dei loro predecessori più poveri del Duecento. E molto più ricca di proteine (oltre che di calorie totali) di quella degli uomini del ‘600 o del primo ‘800, quando ormai le crisi internazionali e il boom demografico avevano deteriorato notevolmente la dieta della popolazione.

Erano liberi contadini e, molto spesso, piccoli proprietari terrieri in grado di mangiare più che a sufficienza, integrando la dieta anche con la selvaggina (nonostante non fosse sempre legale cacciare), e di allenarsi con gli archi fin da bambini per diventare sempre più forti e precisi. Erano gli Yeoman: a metà strada tra i plebei o i comuni soldati e i cavalieri, equivalenti come posizione sociale ai Freibauer tedeschi.

Nell’Editto sulle Armi del 1252 gli Yeoman vengono indicati come proprietari terrieri con un reddito di almeno 40 scellini l’anno: “quelli con un reddito annuale derivato dalla terra di 40-100 scellini devono essere armati e addestrati con l’arco e le frecce, la spada, il brocchiere e il pugnale“. In cambio della loro disponibilità in caso di chiamata alle armi ricevevano un compenso. Alcuni arcieri divennero professionisti a tempo pieno, lasciando la cura della terra (se ancora ne possedevano) a qualcun altro in cambio di un reddito non molto alto, ma più sicuro.

La scomparsa dell’arco lungo inglese dai campi di battaglia non è dovuta solo alla sua incapacità rispetto alle armi da fuoco di penetrare le armature, ma anche alla scomparsa degli Yeoman stessi. Vi furono pestilenze tra gli anni quaranta e cinquanta del Cinquecento, epidemie di febbri bubboniche e carestie che uccisero più di un terzo degli uomini abili alle armi. La qualità della vita precipitò, l’inflazione rese difficile, come nel resto d’Europa, la sopravvivenza della gente un tempo benestante (come gli operai edili tedeschi) e ora sul lastrico.

L’altezza delle persone diminuì a causa della malnutrizione infantile, arrivando a quelle medie piuttosto basse che si vedevano nel ‘700 e nell’800 (pare che nel medioevo l’altezza media fosse poco inferiore, se non uguale in alcune popolazioni, a quella attuale). Il potere d’acquisto del denaro era crollato in pochi decenni, ma la paga degli arcieri era rimasta la stessa di duecento anni prima. I piccoli liberi contadini, vittime dell’inflazione, ma privi dei mezzi per difendersi, perdettero le loro terre (come successe in Francia).

E con la scomparsa degli Yeoman scomparvero anche gli arcieri forti e muscolosi in grado di usare i potenti longbow.

Il Duca di Baionette

Sono appassionato di storia, neuroscienze e storytelling. Per lavoro gestisco corsi, online e dal vivo, di scrittura creativa e progettazione delle storie. Dal 2006 mi occupo in modo costante di narrativa fantastica e tecniche di scrittura. Nel 2007 ho fondato Baionette Librarie e nel gennaio 2012 ho avviato AgenziaDuca.it per trovare bravi autori e aiutarli a migliorare con corsi di scrittura mirati. Dal 2014 sono ideatore e direttore editoriale della collana di narrativa fantastica Vaporteppa. Nel gennaio 2017 ho avviato un canale YouTube.

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